di Tommaso Virnicchi
Siamo tutti molto preoccupati per quello che sta succedendo nel Golfo del Messico. Da oggi dovremmo esserlo ancora di più, e non solo per i danni alle coste della Louisiana, del Mississippi e della Florida, ma per il rischio che il disastro abbia pesanti influssi sul clima del Nord Europa. I fatti sono noti e sotto gli occhi di tutti e tuttavia sembra che nessuno si accorga di effetti a medio termine che potrebbero essere disastrosi anche per noi.
Sappiamo tutti che il 20 Aprile 2010 una perdita di petrolio, seguita da un’esplosione e da un incendio, ha causato la distruzione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizons, di proprietà della BP, provocando la morte di 11 persone ed il ferimento di altre 19.
Nonostante un sito web sia dedicato appositamente a dare in pasto all’opinione pubblica le notizie in tempo reale, sia le stime del danno, sia gli interventi per contenerlo sono stati, e continuano ad essere, caotici e fin ora inutili. Anche l’operazione Top Kill è fallita dopo due giorni, ed alla data odierna (20 giugno) le stime dicono che la perdita potrebbe continuare almeno fino ad Agosto, ossia un totale di forse 4 mesi.
Anche la stima della perdita è estremamente varia. Sono state citate quantità da 1000 a 5000 barili (da 150 a 700 tonnellate) al giorno delle prime indicazioni fornite dalla stesa BP fino ad oltre 100.000 barili (15 mila tonnellate) da fonti ambientaliste. Un dato affidabile è quello dell’estrazione fatta con un tubo da 3 pollici inserito per alcuni giorni nella condotta impazzita: da quel tubo sono stati estratti circa 800.000 litri al giorno. La perdita complessiva deve essere quindi sicuramente molto superiore. Sembra quasi ridicola al confronto la prima perdita, di 790.000 galloni (3 milioni di litri), di idrocarburi presenti sulla piattaforma distrutta.
Per un confronto sull’ordine di grandezza, si pensi al disastro della Exxon Valdez, uno dei peggiori in cui complessivamente furono dispersi 40,9 milioni di litri che inquinarono 1900 Km di coste; il disastro del Golfo del Messico equivale quindi più o meno ad una Exxon Valdez ogni otto giorni.
È naturale che l’attenzione degli abitanti della zona si sia concentrata sui rischi che questa enorme perdita può comportare per le aree costiere e per le locali risorse naturali, ed infatti abbiamo assistito ad operazioni, più o meno frammentarie, di sistemazione di barriere galleggianti, recupero di petrolio dalla superficie marina, anche al tentativo di bruciarne una parte direttamente in mare per evitare che arrivi fino a terra.
È opportuno porre l’attenzione sul fatto che la Corrente del Golfo passa proprio a breve distanza dalla localizzazione della perdita, formando un inviluppo detto “loop current”. Nelle foto satellitari si vede chiaramente come ormai una parte della perdita sia entrata in questo loop, e quindi viene progressivamente trascinato nel flusso principale della corrente. Questo flusso di petrolio che si immette nella corrente del Golfo può essere visto perfino favorevolmente da chi sta facendo fronte al disastro, perché si tratta sicuramente di petrolio che non arriverà direttamente sulle coste più vicine, ma quale sarà il risultato di questo inquinamento della grande circolazione oceanica?
Uno studio dell’ UCAR (University Corporation for Atmospheric Research), un dipartimento dell’Università di Boulder nel Colorado, ha simulato diversi scenari dimostrando che in un periodo di tempo variabile ma non eccessivo (da 90 a 120 giorni dal disastro iniziale) il flusso di petrolio raggiungerà il Nord Atlantico, distribuendosi su una superficie di oltre 900.000 Km quadrati, più della Francia e della Germania insieme.
In realtà le foto da satellite mostrano una situazione più grave di quella delle simulazioni, a soli 60 giorni dal disastro la quantità di petrolio nella Corrente del Golfo è maggiore di quella prevista dalle simulazioni.
Dobbiamo tener presente che la Corrente del Golfo ha un effetto importante sul clima del Nord Europa, portando acqua calda nel Nord Atlantico fino alle coste dell’Inghilterra, della Scozia e della Scandinavia. Una pellicola di sostanza oleosa su una superficie così grande ridurrà l’evaporazione, quindi nei prossimi mesi avremo minore umidità atmosferica, inoltre l’evaporazione provoca un raffreddamento dell’acqua, quindi l’acqua sarà più calda e leggera ed arriverà più lontano, verso le aree polari. Uno scenario inquietante per gli effetti sul clima globale.
Anche un altro effetto del disastro può diventare globale: circa il 35% della perdita è composto da idrocarburi leggeri, che in parte finiscono direttamente in atmosfera ed in parte vengono bruciati in “incendi controllati” sul posto. Nelle immagini da satellite si vedono con molta chiarezza i pennacchi di fumo ed una valutazione prudente porta alla spaventosa quantità di oltre 220.000 tonnellate di fuliggine ed anidride carbonica, a cui si aggiungono gli idrocarburi leggeri, in particolare metano. Anidride carbonica e metano sono gas serra e portano ad un riscaldamento dell’atmosfera, mentre la fuliggine ha un effetto schermante e la raffredda.
fonte: www.gliitaliani.it
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