Ad Agadir sempre più lontana l'intesa per far rispettare la moratoria. I rappresentanti giapponesi sotto accusa: "Comprano i voti"
MARCO ZATTERIN
CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
A Tokyo la chiamano «kujira» e va servita fresca. I ristoranti la propongono come sorta di pancetta, o tagliata sottile nei piatti di sashimi. Ai negozi che la comprano all’ingrosso costa 30 euro la libbra, tutto sommato poco per quella che alcuni considerano una rara prelibatezza. Il conto più caro lo paga il pianeta, che vede scomparire uno dei suoi mammiferi marini più straordinari. All’inizio del XX secolo le hanno catturate a milioni, ora sono poche decine di migliaia, forse. Si vorrebbe limitarne la caccia, anzi ci sarebbe in vigore una moratoria che ne proibisce l’uccisione. Invano. In barba agli accordi internazionali, giapponesi, islandesi e norvegesi continuano ad ammazzare le balene e non hanno intenzione di smettere.
Lo si è visto ieri negli assolati saloni del centro congressi Les Dunes d’Or di Agadir. Gli 88 rappresentanti nazionali della Commissione baleniera internazionale (Iwc) si sono riuniti alle 10 e hanno subito gettato la spugna. Parti troppo lontane, accordo rompicapo, atmosfera da giallo con accuse di corruzione ai giapponesi che avrebbero comprato i voti delle isole del Pacifico con denaro sonante, ad esempio pagando il conto dell’albergo, 6 mila dollari, al vicepresidente (di Antigua) dell’organismo internazionale. I preliminari sono durati un’ora, quindi la plenaria s’è sciolta, dandosi appuntamento a domani e avviando la giostra dei bilaterali, nella speranza di trovare un’intesa entro venerdì. E magari a salvare le balene.
La soluzione del problema è legata a un dilemma che pare una filastrocca. E’ meglio consentire la caccia ai cetacei dei mari aperti in modo da salvarne qualcuno in più? O è più opportuno continuare a proibirla e lasciare che il massacro continui? Nel 1986 l’Iwc ha votato una moratoria sulle catture per fini commerciali. Un giro nei supermercati di Reykjavik o di Oslo basta a capire cosa pensano i pescatori nordici degli ordini della Commissione: hanno continuato a fare gli Achab. Insieme coi fratelli di arpione giapponesi hanno «pescato» oltre 33 mila cetacei in violazione degli accordi, almeno secondo l’Animal Welfare Institute di Washington. In tempi recenti si stima ne abbiano presi 2 mila l’anno.
Punirli? Macché. L’Iwc si è arreso alle ripicche delle nazioni cacciatrici e ha pensato di sostituire la moratoria con un sistema di quote. L’idea è di legalizzare le catture, ma di limitarle in modo da proteggere gli stock, riportando all’ovile i maramaldi d’alto bordo. In questo modo, fissando un tetto agli esemplari, «si potrebbero risparmiare 5 mila balene in 10 anni».
Il primo grande problema del vertice di Agadir è decidere la soglia. Si parla di 1000 o 1500 capi ogni 12 mesi, inizialmente per quattro specie, quantità che il Giappone e gli altri rinnegati del diritto potrebbero anche accogliere. C’è un problema, però. Giunti all’inizio della trattativa, il comitato dell’Iwc ha detto che i numeri «non appaiono sostenibili». Sono «diverse volte più elevati di quanto serve nel Pacifico e il doppio dell’Atlantico». «Qui si fa politica, non scienza», ne ha desunto Scott Baker, biologo marino dell’Università dell’Oregon, nel comitato dal ’94.
I tecnici non di parte ritengono che sia impossibile sapere con esattezza quante sono le balene rimaste, anche perché nessuno dice la verità sugli esemplari tirati a bordo. Giappone e Corea del Nord hanno dichiarato che in 20 anni sono «state costrette» a commercializzare oltre mille balene morte in scontri con navi nelle acque territoriali. Gli esperti dicono che il dato è dubbio e le circostante probabilmente costruite ad arte. Tutto è incerto. Anche la moralità di certi governi.
L’Islanda, ad esempio, che accetta la moratoria con riserva autoproclamata. Dovrà smetterla, almeno se vuole entrare dell’Ue, perimetro nel quale dai capodogli in su tutto è protetto. Il Giappone non vuole, compra voti (pare) e fa infuriare chi ci tiene davvero, gli australiani per esempio. Gli ambientalisti guardano al bicchiere mezzo pieno. Se il summit fallisce, resta il bando. Il dibattito, a quel punto, potrebbe concentrarsi sul come farlo rispettare. Moby Dick e le altre non avrebbero nulla in contrario.
fonte: www.lastampa.it/lazampa
MARCO ZATTERIN
CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
A Tokyo la chiamano «kujira» e va servita fresca. I ristoranti la propongono come sorta di pancetta, o tagliata sottile nei piatti di sashimi. Ai negozi che la comprano all’ingrosso costa 30 euro la libbra, tutto sommato poco per quella che alcuni considerano una rara prelibatezza. Il conto più caro lo paga il pianeta, che vede scomparire uno dei suoi mammiferi marini più straordinari. All’inizio del XX secolo le hanno catturate a milioni, ora sono poche decine di migliaia, forse. Si vorrebbe limitarne la caccia, anzi ci sarebbe in vigore una moratoria che ne proibisce l’uccisione. Invano. In barba agli accordi internazionali, giapponesi, islandesi e norvegesi continuano ad ammazzare le balene e non hanno intenzione di smettere.
Lo si è visto ieri negli assolati saloni del centro congressi Les Dunes d’Or di Agadir. Gli 88 rappresentanti nazionali della Commissione baleniera internazionale (Iwc) si sono riuniti alle 10 e hanno subito gettato la spugna. Parti troppo lontane, accordo rompicapo, atmosfera da giallo con accuse di corruzione ai giapponesi che avrebbero comprato i voti delle isole del Pacifico con denaro sonante, ad esempio pagando il conto dell’albergo, 6 mila dollari, al vicepresidente (di Antigua) dell’organismo internazionale. I preliminari sono durati un’ora, quindi la plenaria s’è sciolta, dandosi appuntamento a domani e avviando la giostra dei bilaterali, nella speranza di trovare un’intesa entro venerdì. E magari a salvare le balene.
La soluzione del problema è legata a un dilemma che pare una filastrocca. E’ meglio consentire la caccia ai cetacei dei mari aperti in modo da salvarne qualcuno in più? O è più opportuno continuare a proibirla e lasciare che il massacro continui? Nel 1986 l’Iwc ha votato una moratoria sulle catture per fini commerciali. Un giro nei supermercati di Reykjavik o di Oslo basta a capire cosa pensano i pescatori nordici degli ordini della Commissione: hanno continuato a fare gli Achab. Insieme coi fratelli di arpione giapponesi hanno «pescato» oltre 33 mila cetacei in violazione degli accordi, almeno secondo l’Animal Welfare Institute di Washington. In tempi recenti si stima ne abbiano presi 2 mila l’anno.
Punirli? Macché. L’Iwc si è arreso alle ripicche delle nazioni cacciatrici e ha pensato di sostituire la moratoria con un sistema di quote. L’idea è di legalizzare le catture, ma di limitarle in modo da proteggere gli stock, riportando all’ovile i maramaldi d’alto bordo. In questo modo, fissando un tetto agli esemplari, «si potrebbero risparmiare 5 mila balene in 10 anni».
Il primo grande problema del vertice di Agadir è decidere la soglia. Si parla di 1000 o 1500 capi ogni 12 mesi, inizialmente per quattro specie, quantità che il Giappone e gli altri rinnegati del diritto potrebbero anche accogliere. C’è un problema, però. Giunti all’inizio della trattativa, il comitato dell’Iwc ha detto che i numeri «non appaiono sostenibili». Sono «diverse volte più elevati di quanto serve nel Pacifico e il doppio dell’Atlantico». «Qui si fa politica, non scienza», ne ha desunto Scott Baker, biologo marino dell’Università dell’Oregon, nel comitato dal ’94.
I tecnici non di parte ritengono che sia impossibile sapere con esattezza quante sono le balene rimaste, anche perché nessuno dice la verità sugli esemplari tirati a bordo. Giappone e Corea del Nord hanno dichiarato che in 20 anni sono «state costrette» a commercializzare oltre mille balene morte in scontri con navi nelle acque territoriali. Gli esperti dicono che il dato è dubbio e le circostante probabilmente costruite ad arte. Tutto è incerto. Anche la moralità di certi governi.
L’Islanda, ad esempio, che accetta la moratoria con riserva autoproclamata. Dovrà smetterla, almeno se vuole entrare dell’Ue, perimetro nel quale dai capodogli in su tutto è protetto. Il Giappone non vuole, compra voti (pare) e fa infuriare chi ci tiene davvero, gli australiani per esempio. Gli ambientalisti guardano al bicchiere mezzo pieno. Se il summit fallisce, resta il bando. Il dibattito, a quel punto, potrebbe concentrarsi sul come farlo rispettare. Moby Dick e le altre non avrebbero nulla in contrario.
fonte: www.lastampa.it/lazampa
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