GIUSEPPE SELVAGGIULO, PAOLO STEFANINI
Secondo i sondaggi è la tassa più odiata dagli italiani, con una reputazione peggiore persino del canone Rai. Ancor più indigesta se si paga una tassa sulla tassa. Proprio così, su quella per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti grava anche l’Iva. Un’ingiustizia bocciata l’anno scorso dalla Corte costituzionale. Dieci giorni fa a Messina, per la prima volta, i giudici tributari hanno ordinato il rimborso dell’imposta indebitamente pagata.
Così, depurata dal doppio balzello, la tassa sui rifiuti diventerebbe un po’ meno odiosa. Ma l’esultanza dei consumatori è stata subito smorzata dalla politica. L’Iva da restituire ai cittadini è un tesoretto che supera il miliardo di euro. Cifra che lo Stato di questi tempi non può permettersi. Da allora, Roma sta facendo di tutto per bloccare la temuta emorragia. E rifilare ai cittadini una beffa, oltre al danno.
Il pasticcio nasce da quella che Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente, definisce «una lunga e scandalosa inadempienza». La tassa sui rifiuti (Tarsu) calcolata sulla superficie dell’abitazione doveva scomparire nel 1997 ed essere sostituita dalla tariffa (Tia), legata all’effettiva produzione di rifiuti. Ma i Comuni hanno ottenuto rinvii in sequenza, mantenendo in vita la cara (in ogni senso) vecchia tassa. Su cui hanno applicato - illegalmente - l’Iva.
Ora, dopo i ricorsi vinti dai consumatori, nei palazzi della politica è scattato l’allarme: come evitare i rimborsi? Nella manovra approvata a fine luglio il governo ha cercato di risolvere il problema con un emendamento degno di Catalano, il mitico personaggio di «Quelli della notte». Stabilisce che «la tariffa di igiene urbana è una tariffa». Sottinteso: non una tassa, dunque soggetta a Iva. Sotto il profilo logico (e tautologico) non fa una grinza; sotto quello legale sì, visto che si scontra con quanto stabilito dalla Consulta.
Per di più, al frettoloso legislatore è scappato l’errore. La norma anti rimborsi richiama il Codice dell’ambiente del 2006. Peccato che non sia ancora operativo, quattro anni dopo!, perché i regolamenti sono in alto mare. La tassa-tariffa è ancora disciplinata dal decreto Ronchi del 1997: possibile che tra Palazzo Chigi, ministeri vari, Montecitorio e Palazzo Madama non se ne sia accorto nessuno?
Pasticcio su pasticcio. Ma la norma basta a mettere una pezza? Per Daniele Fortini, presidente di Federambiente (associazione delle aziende di igiene urbana), «tutto risolto per il futuro, resta il problema del passato». E quindi i consumatori insisteranno. Del resto le prime sentenze sui ricorsi di venti cittadini di Sinagra, un paesino siciliano di tremila abitanti, parlano chiaro: la Tia ha natura tributaria e non è una tariffa per la prestazione di un servizio.
Niente Iva, quindi. Le fatture emesse dovranno essere annullate e riemesse con gli importi ridotti. «Una vittoria importante» secondo l’avvocato Carmen Agnello di Confconsumatori che ha seguito i ricorsi, «qui si pagavano per cento metri quadri delle trimestrali da 240 euro. E in cambio di quale servizio? Monnezza per strada. È dovuto intervenire persino il prefetto». La battaglia continua. «Il problema - spiega Carlo Rienzi, presidente del Codacons - è che bisogna fare causa. È una sola udienza, ma può richiedere anche un anno. In pochi se la sentono di farlo. E facendo riferimento a fatti precedenti all’agosto 2009 non si può intraprendere nemmeno la class action. Così la speranza di giustizia si allontana».
fonte: www.lastampa.it
Così, depurata dal doppio balzello, la tassa sui rifiuti diventerebbe un po’ meno odiosa. Ma l’esultanza dei consumatori è stata subito smorzata dalla politica. L’Iva da restituire ai cittadini è un tesoretto che supera il miliardo di euro. Cifra che lo Stato di questi tempi non può permettersi. Da allora, Roma sta facendo di tutto per bloccare la temuta emorragia. E rifilare ai cittadini una beffa, oltre al danno.
Il pasticcio nasce da quella che Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente, definisce «una lunga e scandalosa inadempienza». La tassa sui rifiuti (Tarsu) calcolata sulla superficie dell’abitazione doveva scomparire nel 1997 ed essere sostituita dalla tariffa (Tia), legata all’effettiva produzione di rifiuti. Ma i Comuni hanno ottenuto rinvii in sequenza, mantenendo in vita la cara (in ogni senso) vecchia tassa. Su cui hanno applicato - illegalmente - l’Iva.
Ora, dopo i ricorsi vinti dai consumatori, nei palazzi della politica è scattato l’allarme: come evitare i rimborsi? Nella manovra approvata a fine luglio il governo ha cercato di risolvere il problema con un emendamento degno di Catalano, il mitico personaggio di «Quelli della notte». Stabilisce che «la tariffa di igiene urbana è una tariffa». Sottinteso: non una tassa, dunque soggetta a Iva. Sotto il profilo logico (e tautologico) non fa una grinza; sotto quello legale sì, visto che si scontra con quanto stabilito dalla Consulta.
Per di più, al frettoloso legislatore è scappato l’errore. La norma anti rimborsi richiama il Codice dell’ambiente del 2006. Peccato che non sia ancora operativo, quattro anni dopo!, perché i regolamenti sono in alto mare. La tassa-tariffa è ancora disciplinata dal decreto Ronchi del 1997: possibile che tra Palazzo Chigi, ministeri vari, Montecitorio e Palazzo Madama non se ne sia accorto nessuno?
Pasticcio su pasticcio. Ma la norma basta a mettere una pezza? Per Daniele Fortini, presidente di Federambiente (associazione delle aziende di igiene urbana), «tutto risolto per il futuro, resta il problema del passato». E quindi i consumatori insisteranno. Del resto le prime sentenze sui ricorsi di venti cittadini di Sinagra, un paesino siciliano di tremila abitanti, parlano chiaro: la Tia ha natura tributaria e non è una tariffa per la prestazione di un servizio.
Niente Iva, quindi. Le fatture emesse dovranno essere annullate e riemesse con gli importi ridotti. «Una vittoria importante» secondo l’avvocato Carmen Agnello di Confconsumatori che ha seguito i ricorsi, «qui si pagavano per cento metri quadri delle trimestrali da 240 euro. E in cambio di quale servizio? Monnezza per strada. È dovuto intervenire persino il prefetto». La battaglia continua. «Il problema - spiega Carlo Rienzi, presidente del Codacons - è che bisogna fare causa. È una sola udienza, ma può richiedere anche un anno. In pochi se la sentono di farlo. E facendo riferimento a fatti precedenti all’agosto 2009 non si può intraprendere nemmeno la class action. Così la speranza di giustizia si allontana».
fonte: www.lastampa.it
Un vero pasticcio all'italiana! Piatto tipico del menù del nostro paese.
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