lunedì 27 settembre 2010

Birmania: al regime piace vincere facile

(foto: Asianews)


Il 25 per cento dei seggi garantiti ai militari. I detenuti politici esclusi dalla competizione. Così finisce che Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari, che scadranno, ironia della sorte o astuzia del regime, una settimana dopo il voto, è fuori dai giochi. E la sua esclusione ha provocato disaccordi e scissioni all’interno di una opposizione da anni imbavagliata e praticamente ininfluente. La “Road Map for democracy”, come la giunta militare birmana ha volute chiamare il programma pluriennale di avvicinamento alle elezioni del 7 novembre, suona come una enorme beffa per i cittadini di uno dei Paesi più poveri al mondo.
L’appuntamento all’urna, dopo 20 anni di dittatura, ha tutti i presupposti di una “farsa”. Al regime piace vincere, facile, senza avversari. E per questo non ha lasciato nulla al caso. Con una opposizione nel caos, che per mesi ha litigato sull’opportunità di prendere parte o meno al voto, la vittoria dei militari sembra ancora più scontata.

Alla Lega nazionale per la democrazia (Lnd), è stato chiesto di espellere il proprio leader Suu Kyi. Non l’ha fatto. Ha preferito boicottare le elezioni, dividendosi tra coloro che sostenevano la linea dura di “nessuna concessione al regime” e i dissidenti, che hanno dato vita ad una nuova formazione politica: “Forza democratica nazionale” (Ndf). L’Ndf ha ottenuto dal regime l’autorizzazione a presentare i propri candidati. Ma rimane pur sempre una formazione senza identità, senza una leader forte e carismatica come poteva essere il premio Nobel Suu Kyi.
In un Paese dove l’opposizione politica non è tollerata e i diritti delle minoranze calpestati, anche chi cerca di informarsi attraverso i canali in birmano come RFA, VAO o BBC, finisce inesorabilmente per confondersi le idee. I giornali che hanno descritto i quarantadue partiti presenti alla tornata elettorale sono pochi. E quei pochi l’hanno fatto in maniera superficiale. Senza considerare che la lettura dei giornali è limitato alla sola popolazione urbana. Il fatto poi che sia negato ai partiti politici di fare campagna elettorale in luoghi pubblici, nega la possibilità degli stessi partiti a informare la popolazione.
“Le elezioni - dice a Unimondo un cooperante italiano che vive nel Paese e chiede l’anonimato - vengono vissute con disinteresse. La stragrande maggioranza della popolazione birmana, specie quella colta, ama discutere di politica quando è a porte chiuse. Ma le aspettative sono molto scarse. Fra la società civile c’è preoccupazione per via delle restrizioni: non è molto chiaro quello che succederà, ma è possibile che tutte le attività vengano sospese nel periodo elettorale, che gli spostamenti vengano limitati, e così via”.
Anche i controlli si fanno sempre più stretti. Il rilascio dei visti per gli stranieri che vogliono recarsi nel Paese durante il periodo delle elezioni è molto difficile, praticamente impossibile. Il numero dei militari per le strade è in aumento, come le restrizioni.
Già oggi, come racconta la nostra fonte, gli spostamenti non sono facili. “Per gli operatori umanitari – spiega - è necessario richiedere autorizzazioni governative per gli spostamenti. In genere, per ottenere una autorizzazione a recarsi in aree in cui si è autorizzati a lavorare, perché in quelle non autorizzate non ci si potrebbe proprio andare, ci vogliono almeno due settimane. Due settimane che nella pratica possono anche prolungarsi. Questo fa si che tutti i viaggi debbano essere programmati con largo anticipo”.
Se lo scopo del regime era restringere la rosa delle candidature, c’è riuscito. È bastato imporre, ad agosto, una finestra di due settimane per la registrazione dei candidati. Cinquecento dollari a seggio. Una cifra esorbitante se si considera che uno stipendio medio birmano oscilla tra i 60 e i 70 dollari al mese. E così finisce che su oltre 1100 seggi, (Camera Bassa 440 seggi, Senato 224 seggi, resto ai Consigli Regionali) l’opposizione, al completo, ne riesce a coprire meno della metà.
Tradotto significa che i militari avranno, in molte regioni, la vittoria garantita senza neppure i voti della popolazione.. Tanto più, che a controllare sulla legittimità del voto non sono ammessi osservatori internazionali e giornalisti, se non quelli governativi.
Insomma, la vittoria militare è quasi scontata. “Credo che cambiamenti siano possibili, ma non certo nel senso sperato Credo che molti militari – dice ancora la fonte a Unimondo - siano disturbati dal fatto di dover abbandonare la divisa, per quello che comporta sia a livello simbolico che di status sociale. Hanno costruito un’ideologia sul ruolo dell’esercito e il doverci rinunciare da un giorno all’altro fa di certo aumentare le tensioni”.
Intanto il “generalissimo” settantasettenne Than Shwe, numero uno del regime dal ’92, è in maniera sempre più evidente indirizzato al modello di Kim Il Sung. Ovvero, lasciare la presidenza a un discendente, probabilmente il nipote. Per esempio, nell’attuale visita di Stato in Cina è andato da solo con i suoi familiari, lasciando a casa generali e “generalini”. È anche evidente che il perno attorno al quale girano le elezioni è che Than Shwe non vuol fare la stessa fine che lui stesso fece fare a Bo Ne Win, e sta quindi cercando una “exit strategy” che lo metta al sicuro.
Ma anche su questo, in Birmania, non ci sono informazioni chiare e ci si basa sempre e solo sui rumors. “Quello che è certo – racconta la fonte di Unimondo - e’ che Than Shwe si sta preparando a lasciare il potere nel giro di qualche anno”.
E le elezioni rientrano in questa strategia. Ma il fatto che tale strategia funzioni, per lui e per il Paese, è un altro paio di maniche. Ad ogni modo, nel giro di qualche anno, quello che appare più probabile, è che il Paese passerà da un dittatore a un altro. Così come è successo nel 1988. E la democrazia, in Birmania, può aspettare ancora un pò.

Andrea Bernardi (inviato di Unimondo)

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