mercoledì 13 ottobre 2010

Stop allo sfruttamento della terra. Protesta alla Fao

 
Susan Dabbous
 
AGRIBUSINESS. In occasione della plenaria della Commissione sulla sicurezza alimentare dell’Onu, i contadini chiedono di partecipare ai progetti di investimento agricolo. E raccontano le loro storie.

Cinque persone, cinque continenti. Un uomo d’affari si avvicina con fare sicuro e valigetta in mano per fare un’offerta di acquisto: vuole la loro terra. I cinque dicono «No» strappando il contratto. E uno ad uno iniziano a raccontare le loro storie nell’atrio del palazzo della Fao a Roma. «Abbiamo rappresentato in questo modo l’accaparramento della terra – spiega Andrea Ferrante presidente dell’Aiab -. In questi giorni è in corso la plenaria della Commissione mondiale per la sicurezza alimentare. Vogliamo riaccendere i riflettori su questo fenomeno che ha portato all’esproprio della terra di tanti contadini». Torna l’imperativo della “sovranità alimentare” nella capitale italiana che ospita l’organizzazione Onu delegata alle politiche agricole. Henry Saragih, indonesiano di Nord Sumatra, prende parola e racconta cosa accade da quando il suo Paese è terreno fertile per l’agribusiness. 
 
 
«La Cargill  si è appena conquistata 100mila ettari per i prossimi 35 anni destinati alla produzione di olio di palma. Il governo indonesiano, grazie alle nuove liberalizzazioni, concede boschi e aree rurali togliendo la terra ai contadini. Ormai - prosegue Saragih membro della Via campesina - solo lo 0,3 per cento della superficie coltivabile appartiene ai coltivatori indonesiani. Chiediamo la riforma agraria da anni, ma il governo non la concede per attirare i grandi investimenti del Fondo mondiale internazionale e della Banca mondiale che a loro volta favoriscono le multinazionali, che impiantano monoculture  per l’agribusiness. Questo tipo di coltivazione - spiega -  non solo toglie lavoro ai contadini ma non restituisce neanche prodotti alimentari. Così si spiega perché la maggior parte del miliardo di persone che soffre la fame è composto da agricoltori».
 
Oltre ai danni economici, poi, anche la violenza. «La multinazionale Sinarmas, che in Indonesia si occupa principalmente di produzione di olio di palma, ha portato avanti una politica di intimidazioni indirette attraverso gli amministratori locali e i poliziotti. Sono loro infatti che si fanno carico di convincere i contadini a vendere la terra con le buone o con le cattive. Spesso cedono, altre volte si ribellano, come è accaduto durante una manifestazione di protesta a giugno scorso nella regione di Riau. La mobilitazione però si è trasformata tragedia: la polizia ha sparato sulla folla e un uomo è morto». Ad aggravare la situazione da un punto di vista della biodiversità, in Indonesia, c’è anche la coincidenza tra il fenomeno dell’accaparramento e quello  della distruzione delle foreste. «Dal 1990 ad oggi – ricorda Saragih - ne sono stati distrutti 7 milioni di ettari». L’Indonesia è solo un esempio di ciò che sta accadendo in tutto il mondo dopo il picco dei prezzi dei prodotti alimentari del 2007. 
 
Soltanto nel 2009 la tendenza all’acquisizione e allo sfruttamento transnazionale della terra nelle aree più povere del pianeta ha riguardato 45 milioni di ettari. Una crescita impetuosa confrontata con il tasso di espansione annuale di 4 milioni di ettari del decennio precedente e che vale 100 miliardi di dollari. Più del 70% delle transazioni internazionali agricole si è realizzata in Africa. Negli ultimi anni Mozambico, Etiopia e Sudan hanno trasferito milioni ettari nelle mani di gruppi stranieri, per lo più multinazionali. Ma non c’è solo l’Africa. Per l’Italia dentro la Fao viene riportato l’esempio della Sabina, la campagna romana coltivata a uliveti. L’urbanizzazione della metropoli ha portato non solo ad una nuova area industriale ma anche alla cementificazione della terra a scopo abitativo. Peccato però, sottolineano durante la dimostrazione, che il calcestruzzo non si mangia.

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