tratto da: Megachip
di Pier Luigi Fagan
Siamo sicuri che ciò a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, la crisi economica e civile drammaticamente esplosa in tutto il pianeta, possa configurarsi come il prodromo della fine del Capitalismo e dell'intera Era moderna? Come può l'archeologia, la storia delle migrazioni umane e la demografia aiutarci a comprendere la complessità della transizione "epocale" che stiamo vivendo?
In questo interessantissimo articolo, Pier Luigi Fagan tenta di dare delle risposte a questi ed altri interrogativi in una prospettiva storica di "longue durée". Il quadro risultante dalle sue analisi è estremamente efficace ed originale, e getta le basi per un ripensamento critico di alcune strutture interpretative consolidate dal pensiero moderno, offrendo al tempo stesso gli auspici per affrontare l'inevitabile cambiamento imposto dall'avvento di una nuova Era della "Grande Complessità".
Slavoj Žižek, filosofo contemporaneo, acuto lettore del presente occidentale , ha scritto il suo “Vivere alla fine dei tempi” [1] in cui si domanda non “se” siamo alla fine del capitalismo, ma “come” gestire la nostra transizione in questo delicato passaggio. La sensazione che aleggia sempre più nel dominio delle opinioni, lo Zeitgeist della nostra epoca, è che abbiamo l’impressione che stia finendo un tempo. Ma quale tempo? Iniziato quando? Lungo quanto? Quale significato sta finendo e cosa c’è dopo? Lo storico francese Fernand Braudel ci invitava a contestualizzare i fenomeni che noi reifichiamo in date simbolo (la nascita, la morte) lungo l’asse del tempo lungo, scomponendone le parti per capire, quando e perché iniziò quella cosa che poi portò a quell’altra cosa che infine compose il fenomeno .
A Braudel, ad esempio, pareva che il capitalismo cominciasse ad iniziare con la nascita della borghesia e la nascita della borghesia con la nascita dei borghi, cioè in Italia intorno all’anno 1000 o poco più. A Max Weber pareva, che il capitalismo iniziasse con l’affermazione della razionalità economica, con l’affermazione del “numero-peso-misura” e della contabilità, con la previsione razionale di costi, tempo e profitti, ciò che più o meno andò condensandosi nell’Italia del 1400. A molti, tra cui i rappresentanti della scuola sistemica come Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein, parve che l’inizio del capitalismo si datasse al secolo successivo, il secolo delle Grandi Navigazioni, delle Grandi Scoperte ma in definitiva anche quello dell’inizio della propensione imperiale dell’Occidente. Poco più in là, con le enclosures inglesi già condotte ai tempi di Elisabetta I, Karl Marx pone l’accumulazione originaria premessa del capitale che poi dà vita alla sua riproduzione costante in quel sistema che noi chiamiamo capitalismo ma che Marx chiamava “modo di produzione borghese”, ovvero rapporto sociale connesso ad un determinato modo di produrre la – sussistenza - che, secondo il tedesco, era il perno della costituzione societaria, del perché gli uomini si mettono insieme in comunità. Secondo questa linea interpretativa che in un certo qual modo accumuna, anche se con considerazioni diverse sui tempi, Marx e da lui Weber, Braudel, Wallerstein, la Modernità è consustanziale al capitalismo e la fine dei tempi, sentita da Žižek, quel profumo dolciastro di decomposizione incipiente che stiamo respirando ogni giorno di più, sarebbe la fine del capitalismo ( quindi della Era moderna ) o quantomeno di molte delle sue determinazioni strutturali. Sicuri?
Facciamo allora un salto da una altra parte per assumere un fatto nuovo, utile per la ricerca di una risposta alla nostra domanda inziale, un salto che ci porta al confine tra Turchia e Siria dove troviamo un fatto archeologico. Di che fatto si tratta? L’uso di lenti monocrome, ovvero la nostra propensione culturale a guardare il mondo ed i fatti che lo manifestano con le lenti disciplinari monodimensionali, ad esempio solo l’economia, solo la sociologia, solo la storia, porta a vedere alcune cose (anche con estrema precisione) ma non altre. Capita così che saltare da Marx all’archeologia possa esser per alcuni monovedenti, disturbante, sebbene l’archeologia dell’ultimo secolo debba molto proprio ad un convinto marxista, Vere Gordon Childe, il quale, in ossequio alle premesse dell’immagine di mondo storico-materialista, andava cercando proprio i modi di produzione come struttura condizionante della socialità, socialità che era riflessa ad esempio nell’urbanistica e nella topografia dei siti, che come archeologo, Childe [2] doveva e voleva andare a scoprire ed interpretare. Ma non divaghiamo, andiamo in Anatolia a prendere visione del nostro fatto archeologico.
Siamo in un posto che si chiama Göbekli Tepe [3]. Qui, a partire dalla casuale scoperta di un pastore curdo che vede affiorare gli spigoli ben definiti di grandi pietre squadrate, iniziano gli scavi di quella che ancora non si è capito se definire “la più importante scoperta archeologica” degli ultimi 30, 50 o 100 anni, quindi più o meno di sempre.
Dal 1995 ad oggi, gli scavi di Göbekli Tepe hanno restituito ben 40 monoliti, alti in media 3 metri per 10 tonnellate cadauno, fatti di una lastrone squadrato posto in verticale e di un lastrone squadrato posto in orizzontale in cima all’altro (o scavati come blocco unico a forma di T). I monoliti sono ornati da incredibili bassorilievi con figure animali e sono posti l’uno accanto all’altro in cerchi, si contano allo stato attuale degli scavi 4 diversi cerchi. C’è anche un monolite solitario della ragguardevole altezza di 7 metri.Ma il bello è che analisi geomagnetiche del terreno sottostante, dicono che lì sotto, di pietroni squadrati ce ne sono almeno altri 200! Analisi del terreno ci dicono che quando questo incredibile complesso fu fatto (e per il momento, per amore del colpo di scena, non rivelerò questo “quando”) lì, diversamente da oggi che è una brulla e inanimata pietraia, c’erano boschi, prati, fiumi e laghetti e un clima paradisiaco.
Però, a Göbekli Tepe non ci viveva nessuno, il monumentale complesso che portò probabilmente via dai 3 ai 6 secoli di ininterrotto lavoro di centinaia, se non migliaia, di lavoratori, artigiani, mastri, artisti e chissà chi altro, era un sito simbolico.
Non sappiamo, né ai nostri fini ci interessa, stabilire se fosse un sito religioso, astronomico, politico, di scambio mercantile, culturale o quant’altro o tutte queste cose assieme.
Ci interessa solo sottolineare tre cose:
1) non era una città ma un sito a sé;
2) doveva presupporre una massa di persone organizzate che lo costruirono per lungo tempo ed una ben più grande massa di persone che lo utilizzavano per cerimonie di chissà quale tipo;
3) tutto ciò è stato fatto in un tempo in cui le nostre precedenti cognizioni antropologiche, storiche, archeologiche non prevedevano che ciò potesse esser stato fatto.
Göbekli Tepe fu infatti fatto a partire dal 10.000 a. C. e fu completamente interrato volontariamente, seppellito sotto tonnellate di terra da riporto, entro l'8000 a.C.. Qui c’è il fatto che c’interessa. E ci interessa perché l’agricoltura occidentale, nasce negli stessi luoghi (la famosa Mezzaluna fertile) ma, qualche secolo – dopo – l’interramento di Göbekli Tepe!
E allora? Allora non è vero come abbiamo sin qui creduto, che scoprendo la nuova tecnologia della sussistenza, la cura intenzionale del ciclo semina – cura – raccolto che chiamiamo agricoltura, abbiamo dato vita alla Rivoluzione neolitica, alla nascita delle prime società complesse, stanziali, urbanizzate, sociali, con produzioni delle élite, la divisione del lavoro e tutto il resto della nostra consolidata, precedente narrazione. Non è dall’agricoltura che nascono le società complesse ma è dalle società complesse che deriva l’agricoltura.
Molti di voi, forse, non apprezzeranno appieno il significato di questa inversione dei fattori causativi, ma è invece piuttosto importante, anche perché oltre ad aprire a completamente nuove visioni sul chi siamo, risolve anche alcuni problemi, tra cui la comparsa semi sincronica dell’agricoltura in luoghi così distanti da far escludere lo scambio delle informazioni (Mezzaluna fertile, Valle dell’Indo, Cina), problema che ha a lungo, angustiato gli studiosi.
Göbekli Tepe fu costruita da tribù nomadi o meglio, seminomadi, tribù diverse le une dalle altre, probabilmente federate in un territorio comune che gli studiosi stimano di un raggio di almeno 100 km, al centro del quale costruirono il sito simbolico e nel costruirlo assieme e nell’utilizzarlo assieme lungo un arco di tempo di più di 3000 anni, crearono un sistema sociale complesso, molto complesso a giudicare da ciò che crearono ed a prescindere dalle supposizioni che possiamo fare sul suo utilizzo [4].
La complessità sociale dunque, discende da prima dell’agricoltura che fu un adattamento e non principio primo di causazione. Da dove veniva questa complessità sociale paleolitica che poi transitò nel Mesolitico e da qui al Neolitico e poi ai Metalli ed alle epoche storiche che culminano con la nostra Modernità? Probabilmente da un semplice incremento della densità abitativa (per quanto ancora basata su caccia e raccolta o micro agricoltura selvatica) ovvero da un semplice “sbuffo” demografico.
Che cos’è uno sbuffo demografico? Per la legge degli incrementi proporzionali (geometrici e non aritmetici, cioè 3,6,12,24 e non 3,6,9,12) ad un certo punto, la densità umana in un dato territorio raggiunge soglie critiche [5] che danno vita a nuovi fenomeni, nuovi modi di organizzare l’adattamento umano o visto dagli occhi umani, di “autorganizzarsi”. Uno dei principali motori della storia umana, non è il genio o l’invenzione, non è la tecnologia o la scoperta, non è la lotta tra classi al fine dell’organizzazione della sussistenza, ma tutte queste cose si mettono in moto quando diventiamo improvvisamente tanti in un territorio in cui prima eravamo pochi. Cambia la nostra richiesta adattiva e rispondiamo a questa richiesta inventando nuovi sistemi, migrando, agitandoci, inventando ciò che ci serve per rispondere a questa richiesta. Questa richiesta proviene da un problematico rapporto uomo – natura e l’uomo reagisce innovando la società che è il veicolo adattivo col quale l’uomo gestisce i suoi rapporti di adattamento con la natura.
Il contributo della “sbuffo” demografico alla storia umana è molteplice. L’Occidente nasce dall’unione conflittuale, tra una pacifica società agricola e stanziale posta dove oggi c’è l’Europa dell’Est e popoli nomadi e semi nomadi, patriarcali, armati ed a cavallo, cacciatori, allevatori e guerrieri che chiamiamo con il termine collettivo di “popoli indoeuropei”. Gli indoeuropei, ad un certo punto imprecisato intorno al 4000 a.C., presero a migrare [6] violentemente dal centro Asia in direzione dell’Europa, ma anche dell’Anatolia (gli Hittiti) e poi in Siria (i Mitanni), fors’anche in Egitto (gli Hyksos); dell’altipiano iranico e da qui spingendo le precedenti popolazioni iraniche verso la Mesopotamia ( i “misteriosi” [7] Sumeri) anche verso la Valle dell’Indo portando la loro religione (i Veda), la lingua poi diventata scrittura (il sanscrito) e contribuendo a creare la tradizione indica del nord. Forse andarono anche in Cina ma lì la storia diventa ancor più congetturale e la lasciamo sfumare senza precisarla.
Più tardi, altri popoli centro asiatici di lingua turca, migrarono e si installarono in Anatolia facendola diventare Turchia. Popoli greci migrarono in Anatolia e da qui in Italia. I Celti austro-svizzeri se ne scapparono sino all’Irlanda. I popoli anglosassoni, poi danesi, poi vichinghi, migrarono per sbuffo demografico verso l’Inghilterra dando vita appunto alla Terra degli Angli (gli Angli erano un popolo danese, da cui l’interesse di Shakespeare per l’amletico “c’è del marcio in Danimarca”). Uno sbuffo demografico ma anche cultural-politico dei puritani dell’Inghilterra del ‘600 portò gli anglosassoni, seguiti da scozzesi ed irlandesi, a fondare gli Stati Uniti d’America e così via.
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Allora? Allora, sembrerebbe che le ere macroscopiche del nostro profondo passato si dividevano in due ed oggi stiano dando vita alla terza.
La prima fu quella della bassa densità paleolitica, la seconda fu quella dell’avvento della complessità in cui gli uomini, prima presero a formare interrelazioni complesse pur mantenendo uno stile di vita semi nomade [8], poi si fermarono dando vita a villaggi, città, regni, imperi, stati nazione, costruendo società ordinate dal principio gerarchico, organizzate intorno alla sussistenza protetta dal fatto militare, gestita dal fatto politico, ordinate da quello giuridico, società omogeneizzate e consolidate dal fatto culturale e da quello religioso.
Oggi, questa forma di adattamento dei tanti umani nello spazio planetario è giunta ad una nuova discontinuità. Nell’ultimo secolo siamo passati da “soli” 1.500 milioni di individui a circa 7.000 milioni, mai si era registrato un incremento così deciso in un sì breve tempo. I tempi che stanno finendo e di cui respiriamo il dolciastro odore di morte, sono quelli dell’era delle società complesse che erano arrivate ad un ordine del mondo, con una parte, l‘Occidente, a dominio e sfruttamento di tutto il resto del pianeta. Poche nazioni (una mezza dozzina capitanate da due: UK e USA) dominavano tutte le altre (quasi duecento). Così non sarà più e quando fra 2-3 anni la Cina svetterà solitaria in cima alle classifiche del Pil (e vedrete che sarà la buona volta che in Occidente si deciderà di non usare più il Pil come dato sintetico del valore di una nazione) sarà chiaro a tutti che una era è finita.
Ma come sarà la nuova era, l’Era della Grande Complessità, ora che non possiamo più migrare o ammazzarci tutti, l’un con l’altro?
Si possono esprimere degli auspici. Io spero sarà l’era delle tre D.
La prima D è quella della Decrescita del fatto economico, una riduzione dell’importanza e del peso della produzione, dello scambio e della banco finanza nell’ordinare le nostre società (cosa che comporterà necessariamente una perdita del principio di accumulazione come senso delle nostre brevi esistenze e di conseguenza una larga redistribuzione). Questo sistema è una macchina che divora tempo, spazio, energia e materia senza limiti e senza fine procedura. Un processo che non prevede la sua terminazione. In un pianeta affollato da 7, prossimi 9-10 miliardi di individui, mettersi tutti ad usare una Macchina Economica così settata come sistema adattivo, significa creare le premesse per il disastro ecologico, il collasso sociale, il big bang militare del bellum omnium contra omnes.
La seconda D è quella delle Donne, l’altra metà del cielo o meglio, una delle due metà del Tutto umano. L’assetto rigidamente gerarchico di un genere a dominio dell’altro è stata la risposta semplificante alla prima complessità. La Grande Complessità a cui andiamo incontro non è ordinabile da una sclerosi così innaturale, imposta dal dominio del testosterone bellico. In sistemi iper complessi o c’è interazione totale e simmetria diffusa o non c’è modo di trovare strutture di ordine autoorganizzato, funzionale all’adattamento. Nel nostro caso l’ordine dovrà essere adattivo, poiché ricordiamocelo sempre, il nostro problema è come stare in tanti e sempre di più su un singolo pianeta dai confini fisici definiti ed anelastici, nel mentre la natura trascorre il tempo a cambiare se stessa. Non sarà facile, poiché veniamo da una storia ( quindi una tradizione, quindi una cultura, quindi una immagine di mondo oggi inutilizzabile a fini adattivi ) diversa, in cui eravamo pochi o comunque assai meno di oggi. Non sarà facile in particolar per noi occidentali, poiché non solo proveniamo da una situazione più facile per via dei numeri, ma perché ci facilitammo ulteriormente la vita assoggettando il resto del mondo ai nostri desiderata, ai nostri confort, ai nostri bisogni primari e secondari.
La terza D è quella di Democrazia. Una democrazia che si ricongiunga con la propria semantica lasciando al Libro degli Errori del passato primitivo quell’ircocervo che è la “democrazia di mercato”. Una democrazia diffusa ed a trazione permanente, in cui i tutti sono al contempo attori e registi dell’adattamento al nuovo mondo, non delegando ad altri (le sempiterne élite [9]) ed a un regolamento alieno (ad esempio “il mercato”) il compito di dar ordine alle nostre società. Sistemi ipercomplessi non solo sconsigliano gerarchie di una metà a domino dell’altra, ma consigliano una perfetta circolazione delle informazioni che distribuiscano la percezione dello stato delle cose in tutte le parti componenti del sistema sincronicamente. Solo una ben diffusa percezione dei problemi, una introiezione dei quadri generali ed una conseguente deliberazione maggioritaria delle intenzioni sul “che fare?”, farà di un sistema umano ipercomplesso, un sistema adattivo.
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Siamo alla fine dei tempi complessi ed entriamo nella nuova era della Grande Complessità. Non sta terminando un’Epoca, sta terminando un’Era. Ognuno dovrebbe partire dal suo territorio, a registrare le proprie strategie adattive, il nostro territorio è quello dell’Occidente continentale per ragioni geo storiche e culturali.
L’ingrediente centrale per una nuova strategia adattiva è: il tempo. Meno tempo per il lavoro e il consumo, più tempo affinché si possano riequilibrare gli investimenti di impegno nella gestione famigliare, amicale, personale, di modo da tendere all’equiparazione funzionale uomo – donna, precondizione necessaria affinché anche la donna possa partecipare (e più in generale se non i “tutti”, almeno i “molti”, possano partecipare) a quell’altra attività che si nutre di tempo che è la democrazia partecipata.
Dovremmo cominciare a costruire il nostro Göbekli Tepe, forse un Tempio del Tempo [10], un luogo comune dove non c’è solo l’interesse economico, dove la differenza relativa di genere, di anagrafe, di opinione, di tradizione culturale, crea ricchezza e non gerarchia, dove gli individui si pongono in cerchio a parlare, discutere, scambiare idee per poi decidere tutti assieme come si sta nel mondo dei nuovi tempi, la nuova Era della Grande Complessità che ci viene incontro a grandi falcate.
[1] Žižek Slavoj, Vivere alla fine dei tempi, Milano, A. Salani editore, Ponte alle Grazie, 2011
[2] E’ di Childe il concetto assai fertile e longevo di “Rivoluzione neolitica” ovvero quell’insieme di sedentarizzazione, innovazione agricola, gestione delle eccedenze, élite e gerarchie che spesso si pone all’inizio del nostro lungo tempo.
[3] http://it.wikipedia.org/wiki/G%C3%B6bekli_Tepe; Schmidt K., Costruirono i primi templi, Oltre edizioni, 2012
[4] Sulla teoria del centro di gravità di tribù disperse in un vasto areale, di veda anche Lewis Mumford, La città nella storia, collana: Tascabili. Saggi; 3 volumi, Milano, Bompiani, 2002
[5] La soglia critica è data dal rapporto tra contenuto e contenente, cioè tra popolazione e territorio.
[6] In realtà non sappiamo perché. Lo sbuffo demografico ovvero l’improvvisa eccedenza demografica può provenire tanto da un incremento critico della popolazione, quanto da un rimpicciolimento del territorio. Per rimpicciolimento del territorio intendiamo ad esempio un mutamento climatico che modifica l’ecologia di un dato sistema, che sembra impoverirsi di ciò che prima costituiva la sua struttura, struttura di cui alcuni popoli vivevano e di cui non possono viver più, motivo che li spinge a migrare.
[7] La nostra immagine di mondo traviata dal computo del tempo basato sull’anno 0, una arbitraria convenzione imposta dal cristianesimo e dall’Occidente al mondo intero, tende a svalutare tutto ciò che fu prima di allora. Questa visione implicita del mondo, è assunta anche da molti critici della Modernità, del capitalismo, dello spirito occidentale. Capita così che, quando si scoprono cose molte antiche frutto della sorprendente complessità umana, molti abbiano gioco facile a rubricarle come “inspiegabili”. La misteriosità chiama magia, mitologie impastate con metafisica o in sub ordine gli alieni, i rettiliani, forze superiori (gli “illuminati” vengono dopo, ma sono fatti della stessa confusa sostanza neo platonica). Chi interpreta questi fatti rovistando nel circo magico dell’improbabile è di solito un anglosassone, si veda History Channel della piattaforma Sky-Fox dell’australiano Murdoch, piuttosto che i vari autori del mistero in forma di best seller. Il vero mistero è perché qualcuno continui a dare retta a questi cialtroni. La cialtronaggine misterica fa da pendant nella tradizione anglosassone, all’ossessione per l’oggettività scientifica, le due cose vanno assieme, compensandosi. Del resto è noto che anche Newton fosse un alchimista con propensioni misterico – teosofiche.
[8] Le grotte paleolitiche dipinte, tra cui le francesi Chauvet (-32.000 af), e Lascaux, Altamira in Spagna, svolsero probabilmente lo stesso ruolo di “in comune” tra antichi clan e tribù seminomadi che vivevano separate, ma culturalmente connesse.
[9] Secondo il buon Dumézil, i popoli indoeuropei sono i primi a strutturarsi secondo il principio d’ordine delle élite, principio che poi impongono, con la forza, a tutti i popoli che invadono, condizionandone l’evoluzione. La scoperta che esistono le élite, da parte di certi critici del neo liberismo contemporaneo, come se fosse questo ad averle inventate, mostra l’ingenuità dell’approccio culturale con cui guardiamo i complessi fatti del mondo. L’aristocrazia terriera, militare ed ecclesiastica medioevale non era una élite? L’aristocrazia e il patriziato romano? Gli imperatori e i re dell’antichità greca ed ancor più profonda? i sacerdoti egizi? La lettura di un buon libro di storia dovrebbe sempre precedere i nostri approcci interpretativi prima di lanciarci nel dilettantismo furioso.
[10] Brand, Stewart, Il lungo presente, Fidenza, Mattioli 1885, 2009.
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