mercoledì 21 marzo 2012

Terra nativa: macché Tav, il futuro cresce solo nell’orto


tratto da LIBRE

We could be heroes, just one day. Si fa presto a dire “eroi”: definizione attribuita quasi sempre a sproposito, magari in mezzo a qualche battaglia con morti e feriti. Per fortuna non ci furono morti, nel 2005, in quel lembo di terra miracolosamente piana che s’insinua a ridosso della Francia, all’ombra di montagne altre più di tremila metri. I feriti invece non mancarono: finirono all’ospedale, travolti in piena notte dalla furia dei manganelli. Seguirono due giorni di quasi-insurrezione popolare, con in testa i sindaci in fascia tricolore, e il governo fu costretto ad accantonare il progetto. Doveva essere la prima area di cantiere per la Torino-Lione, e venne sbaraccata. «Il Comune ce l’ha assegnata in comodato d’uso, e adesso quei terreni li abbiamo seminati a grano». Il Comune è quello di Venaus, luogo simbolo della “resistenza” No-Tav, che ora si è trasferita a Chiomonte. Scampato il pericolo, Venaus ha cominciato a coltivare il futuro.

Danilo, leader di una piccola rivoluzione verde, ora guida una cooperativa di compaesani, tutti tornati alla terra: «Ero operaio al cotonificio di Susa, persi il lavoro e mi misi in proprio come artigiano edile. Funzionava, ero contento, ma poi ci arrivò addosso il terremoto-Tav». Una mattina, lui e il fratello scoprono che il loro villaggio è completamente militarizzato. «Faceva effetto: i nostri genitori, padre e madre, erano stati entrambi partigiani». Per la prima volta, bisognava fare i conti col fantasma dell’eco-mostro, la maxi-opera che si vuole tuttora imporre alla valle di Susa senza però mai fornire spiegazioni sulla sua presunta utilità. In vallata, la battaglia civile ha svegliato anticorpi che dormivano: «Prima non mi ero mai occupato granché della questione-Tav – dice Danilo – e poi, quando il cantiere si è allontanato da Venaus, mi sono detto che per dimostrare la serietà delle nostre ragioni non basta dire “no”, bisogna anche mettere in pratica uno stile di vita diverso».

I prodotti agricoli della cooperativa valsusinaDetto fatto: è bastata una ricognizione ai campicelli di famiglia, frazionati nel dedalo di orti e terreni che costellano la ripida campagna alle spalle del paese. «Proprio il frazionamento delle proprietà è il problema numero uno dell’agricoltura alpina: ci sono lotti così piccoli che non ci puoi neppure entrare col trattore». Il risultato storico? L’abbandono. Ma a Venaus la storia hanno cominciato a riscriverla dal 2005, a partire dalla terra: «Abbiamo bussato a tutte le porte, e ci hanno aperto: chi aveva un pezzo di terra non più coltivato ce l’ha concesso in cambio di una parte del raccolto. Ora abbiamo messo insieme 7 ettari, cercando di aggregare lotti per disporre di terreni lavorabili». Agricoltura biologica, secondo tradizione: «Niente chimica, ma non abbiamo neppure chiesto la certificazione “bio”, perché non ci andava di compilare scartoffie. Oltretutto non ci serve: i nostri clienti sanno benissimo chi siamo e come lavoriamo: i nostri prodotti sono naturali».
Ci sono le pannocchie del “pignoletto rosso”, antica varietà regionale recuperata dall’Associazione Antichi Mais creata dal Crab, il centro per l’agricoltura biologica del Piemonte, e ci sono le prelibate patate di montagna, tonnellate di prodotto che ogni anni va letteralmente a ruba perché è gustoso e non necessita di trattamenti. «A seconda della stagione abbiamo un po’ di tutto: ortaggi, frutta, erbe aromatiche». Persino l’aglio, i frutti di bosco, i prelibati marroni. «Certo, non mancano le spese: qui in montagna ogni campo va recintato, altrimenti il raccolto se lo mangiano i cinghiali. E quello che non piace ai cinghiali finisce in pasto ai cervi e ai caprioli». In compenso, ci sono i vantaggi di un paese che ospita una storica centrale idroelettrica dell’Enel: «Abbiamo condutture idriche ad alta pressione, che consentono di ottimizzare l’irrigazione». Il resto è duro lavoro: «Abbiano iniziato a recuperare muretti a secco e terrazzamenti, ripristinando il paesaggio di una volta».

Osvaldo e Danilo ChiabaudoAll’inizio, Danilo era solo. Adesso lavora con Monica, Silvana, Adriano, Guido, Serafino, Tonino e Valter. Tutti facevano altri mestieri, e tutti hanno scelto di tornare all’agricoltura. Una scelta consapevole, anti-crisi: qualità della vita, in un mondo avvelenato e vicino al collasso dell’economia industriale. Insieme hanno costituito la cooperativa “Dalla terra nativa”. Parole da cui si ricava la promessa di un traguardo necessario: “alternativa”. «La lotta popolare contro la Torino-Lione ci ha aiutato a capire che il nostro modo di vivere non era proprio felice». Sono scattate attenzioni e disponibilità: dal sindaco, Nilo Durbiano, ai proprietari degli appezzamenti ceduti volentieri in comodato. Idem i clienti: acquistano i prodotti nei mercati della zona o direttamente all’azienda agricola, che confeziona anche “cestini” da consegnare a domicilio. E poi ci sono i Gas, i gruppi d’acquisto solidale di Torino che si riforniscono a Venaus. «Ci comprano le patate di montagna ad un euro al chilo: se le cedessimo alla grande distribuzione, le dovremmo praticamente regalare».
Valle di Susa, Italia: il posto giusto per iniziare a cambiare vita. «Non è stato semplicissimo, c’è voluto impegno. E anche denaro, perché all’inizio devi pur procurarti qualche attrezzatura per lavorare la terra. Ma adesso cominciamo a vedere i primi risultati: ed è un bella soddisfazione». Danilo ormai parla come un esperto di decrescita: «Ho venduto l’auto, non mi serviva più. Mi basta quella di mia moglie, che fa l’infermiera. Ho meno spese e – a conti fatti – in tasca mi restano gli stessi soldi di prima», quando in fabbrica c’era lo stipendio sicuro e sui cantieri edili il lavoro non mancava: «Ma alla fine ero costretto a lavorare come un matto, sempre di più, per riuscire a pagare le tasse. Che vita era?». Danilo sorride: «Non c’è paragone, davvero: oggi ho più tempo per stare con mia figlia. E poi le mie giornate sono all’aria aperta, dal mattino alla sera. Credetemi: non tornerei indietro».

2 commenti:

  1. Questa è veramente l'arte di arrangiarsi e rinnovarsi! Mi è piaciuto molto quando parla delle scartoffie per la certificazione "bio". Sono un inghippo per favorire la grossa produzione e non tutelano un bel niente. Io ho visitato alcuni piccoli produttori bio per la "garanzia partecipata" e penso che le garanzie te le danno le persone e non la carta bollata, è il loro modo di essere e di vivere la vera garanzia!
    Un abbraccione

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    1. Bello, mi piace come lo dici "arrangiarsi e rinnovarsi", sempre più importante ri-avvicinarsi alla terra, una risposta a moltissime domande.
      Concordo pienamente, anche la certificazione bio rischia di diventare un pretesto per burocrazia e business, ma al mometo ancora necessaria, i comportamenti virtuosi basati sul rapporto diretto (gas-gap) con il produttore sono ancora pochi ed una garanzia, sebbene discutibile, è ancora necessaria, semmai si tratterebbe di semplificare l'iter ed insieme "controllare" maggiormente le produzioni.
      Un abbraccione anche a te.
      Namastè

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