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Capita sin troppo spesso di assistere all'elogio della coerenza, da una parte o dall'altra di costruzioni artefatte, duali e del tutto umane.
Speculazioni fondate su premesse del tutto arbitrarie e su affermazioni, tutto sommato, gratuite.
Quest'elogio dipinge come moralmente ed eticamente “migliore” ed “auspicabile” l'essere fermi nelle proprie convinzioni, ma mi chiedo se sia realmente utile questo in un universo in eterno divenire; se davvero sia la scelta migliore cristallizzarsi su posizioni precostituite, dall'abitudine piuttosto che dalla programmazione culturale del sistema (siano esse posizioni di conservazione piuttosto che di quello che chiamiamo progresso).
In fondo lo sappiamo, perchè ci capita di incapparci ogni giorno, quanto spesso questa resistenza al cambiamento sia, in realtà, solo fossilizzazione; quante volte poi definiamo coerenza quella che è solo permanenza testarda in una visione personale spesso indotta.
Mi chiedo, allora, se non sia forse più appropriato definire la propria coerenza nella continuità; cioè averne un concetto ampio e legato all'evoluzione delle idee e dell'umanità, nonché delle condizioni oggettive che la determinano, allo scorrere, piuttosto che al permanere.
In questo quadro sono quindi il movimento e la mutazione a definire il senso del termine coerenza. Non più la ferrea resistenza ad ogni mutazione con la permanenza nelle proprie idee, ma la capacità di adattarsi mantenendo le proprie premesse ideali.