di Giovanni Percolla
Tre casi di decessi in prigione mai arrivati agli onori delle cronache. Due a Roma e uno in Sicilia: ma erano immigrati.
La notizia la riporta Repubblica in un articolo a firma Luigi Carletti: Marko Hadzovic, Paolo Iovanovic, Mija Diordevic sono tre cittadini originari dell’ex Jugoslavia morti di carcere come Stefano Cucchi e Simone La Penna. Ma di loro non si è mai parlato. Perché sono stranieri.
LE STORIE - A Regina Coeli, il carcere romano già al centro di inchieste per i casi Cucchi e La Penna, gli “invisibili” finiti nel nulla sono tre, scrive Repubblica. Due sono morti in cella, un terzo nel carcere di Augusta (Siracusa), ma la famiglia da tempo aveva chiesto un intervento alla procura di Roma per indagare sui ripetuti maltrattamenti che il giovane avrebbe subito ben prima del suo trasferimento in Sicilia. I tre sono stati dimenticati poco dopo i fatti, ma le loro morti sospette non fanno che aiutare la sensazione che nelle carceri italiane la morte sia la norma, soprattutto quando si parla di ‘tossici, malviventi, pregiudicati di mezza tacca’. E stranieri, con famiglie di origine lontane e incapaci di poter intervenire sia nei processi per sollecitare attenzione nelle indagini, sia sui mass media. Scrive Repubblica:
Marko Hadzovic, 32 anni, è morto in prigione ad Augusta (Siracusa) il primo marzo scorso. Vi era arrivato da Regina Coeli passando per Viterbo e Rossano Calabro. Un tour carcerario non usuale per un piccolo rapinatore che doveva scontare pene cumulative per nove anni. Era stato arrestato a Roma perché insieme al suo complice minorenne, armati di taglierino, aggredivano le donne sole in macchina, le picchiavano e le derubavano. Un reato odioso il cui effetto sulla generale sensazione di insicurezza era devastante. Quando Hadzovic fu arrestato, il tam-tam carcerario diffuse la voce che tra le vittime dei suoi colpi vi fosse stata anche la congiunta di un uomo delle forze dell’ordine. Questo, all’interno dell’istituto di pena, avrebbe aggravato — e non poco — la sua situazione. Alex H., ladro di rame, era a Regina Coeli nello stesso periodo. Racconta a Repubblica: «Ho incontrato Marko Hadzovic nel settimo braccio. Gli facevano portare il vitto. Non si doveva parlare con lui, era considerato peggio di un “infame”. Mi sembrò un po’ malmalconcio. Per noi stranieri è sempre più dura che per gli altri. Con qualcuno esagerano proprio. Di Marko mi dissero che era caduto dalle scale».
Un classico.
GLI AVVOCATI E I CARCERIERI – La famiglia di Hadzovic, attraverso i suoi legali, si era rivolta al Garante dei detenuti e cercò di interessare la magistratura. «E’ stato legato, bastonato, gettato per terra» scriverà in una memoria. Queste, e molte altre accuse, non trovarono però uno sbocco d’indagine. Nel frattempo Hadzovic venne trasferito nelle altre carceri. Ad Augusta il primo marzo scorso è morto. La procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta per omicidio. E nel frattempo è arrivata anche un’altra storia:
Paolo Jovanovic viene fermato dai carabinieri il 17 marzo del 2007 e portato a Regina Coeli. Ha 27 anni. È accusato di ricettazione, è un tossicodipendente frequentemente in crisi. Uscirà dal carcere il 22, ormai privo di vita. Nei cinque giorni di detenzione è stato curato con il metadone per astinenza da eroina. Lo psichiatra consiglia la sorveglianza in cella di isolamento con prescrizione di psicofarmaci. La sera del 22 marzo, intorno alle 20,30, il personale carcerario va da Jovanovic per somministrargli la terapia. Secondo quanto dichiarato nei documenti ufficiali, lui non risponde e nessuno lo sveglia. Alle 22,50 il personale procede alla conta numerica dei detenuti. Jovanovic continua a non rispondere. Non può, perché sta morendo.
Jovanovic viene rianimato, o almeno si tenta. Ma ormai è troppo tardi, e secondo gli altri carcerati l’intervento è stato tardivo e inutile. Molte perplessità sui farmaci utilizzati per curarlo.
L’ULTIMA STORIA - Infine, c’è Mija Diordevic:
viene arrestato nel 2008. Ha quarant’anni. È un pluripregiudicato, un soggetto difficile che fa uso di droga. In cella viene “gestito” con il valium. Secondo la famiglia, Mija si sente male di stomaco, il valium lo ha talmente stordito che non riesce a respirare. Muore in cella soffocato dal vomito. Nessuno ne parla. È un altro “invisibile” da archiviare al più presto. La procura apre un fascicolo per gli accertamenti di rito. Il risultato a cui si approda è che non si ravvisa alcun reato. La famiglia, difesa dall’avvocato Luca Santini, dà il via a una causa civile contro il ministero della Giustizia e l’Asl. La tesi è che ci sia stata negligenza e che il cittadino-recluso Mija Diordevic sia stato abbandonato a se stesso.
E anche lui è morto di carcere. Una malattia sconosciuta, ma che colpisce sempre di più.
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