di Francesco Lamendola
Un vecchio proverbio dice che «piove sempre sul bagnato»; e, in effetti, si rimane pensierosi di fronte allo spettacolo di come le avversità tendano a ripetersi con una sorta di crudele monotonia nei confronti di determinate persone, come se non si stancassero mai di colpirle sempre allo stesso modo e nei medesimi punti vitali.
Questo, almeno, è ciò che appare ad un osservatore esterno: il quale, probabilmente, non è a conoscenza di tutte le circostanze e, quindi, non possiede gli strumenti per emettere un giudizio equanime e spassionato. Accade, peraltro, che anche l’osservatore interno rimanga, talvolta, sbalordito da questa - come chiamarla? - strana regolarità, da questa incessante reiterazione di dinamiche dure e difficoltose che si abbattono su di lui, quasi che la vita abbia deciso di concentrare nei suoi confronti una attenzione particolarmente malevola.
Eppure, percepire un fenomeno del genere in simili termini, ossia come una malevolenza della vita nei confronti di qualcuno, è estremamente fuorviante; primo, perché la vita non è mai malevola, ossia non è mai guidata da una intenzionalità negativa nei confronti delle sue creature; secondo, perché noi tendiamo a confondere troppo facilmente la sofferenza con il negativo, mentre è vero, al contrario, che essa può costituire lo strumento più importante per mezzo del quale realizzare la propria crescita spirituale.
In questo senso, si potrebbe affermare che la vita mette alla prova coloro che ama; e, poiché essa ama tutte le creature, che essa mette particolarmente alla prova quelle creature che, per una ragione o per l’altra, ha scelto per invitarle a realizzare in se stesse una trasformazione spirituale più rapida e significativa, magari affinché possano indicare la strada ad altre creature che seguiranno i loro passi e saranno, così, agevolate nel loro cammino.
Il punto fondamentale è convincersi della fondamentale bontà della vita; tutto il resto viene di conseguenza.
Quando si è compreso che la vita è una immensa, preziosissima occasione per realizzare l’amore, allora si è in grado di interpretare correttamente la sofferenza, che, senza tale consapevolezza, apparirebbe soltanto come il regno dell’insensato e del negativo. Ma per l’anima desiderosa di progredire, nulla è insensato e nulla è puramente negativo: tutto concorre al suo perfezionamento e alla sua incessante evoluzione; tutto è finalizzato alla costruzione di un Sé luminoso e finalmente pacificato.
Ogni giorno, ogni ora, la vita cerca di insegnarci qualcosa, cerca di insegnarci il grande segreto: che tutto è amore; ma che, se noi non riusciamo a vederlo, altro non resta che un immenso manicomio popolato da belve impazzite per il dolore, che si sbranano a vicenda, spinte dall’istinto della propria impotenza e della propria infelicità. Un manicomio le cui sbarre sono costituite dalla nostra grossolana ignoranza, dal nostro assurdo desiderio di eliminare la sofferenza, magari con la delirante pretesa di fondare il Paradiso sulla Terra. Mentre è certo che chi vuol costruire il Paradiso in Terra finisce quasi sempre per realizzare l’Inferno.
La persona spiritualmente immatura, di fronte al dolore, reagisce con stupore, con incredulità, con rabbia o con la depressione: si sente vittima di una ingiustizia, accusa gli uomini e il destino, leva ovunque i suoi lamenti e le sue querimonie. È come se ella pensasse che potrebbe essere felice, se solo le circostanze esterne non le si fossero mostrate così inesplicabilmente ostili: e, in tal modo, si inganna più o meno consapevolmente, più o meno deliberatamente.
La persona spiritualmente evoluta accoglie il dolore come un ospite che, per quanto appaia istintivamente poco desiderabile, è in grado di insegnarci molte cose sul senso della vita; non si ribella, non punta i piedi, non impreca e non maledice la propria sorte, ma vive l’esperienza del dolore come una occasione preziosa, forse unica, per compiere un salto di qualità e lasciarsi alle spalle il regno delle cose frivole e insignificanti, per entrare nel regno delle cose che contano e che sono in grado di conferire bellezza e significato all’intera esistenza.
Se, poi, la sofferenza batte più volte alla stessa porta; se, addirittura, sembra colpire con le stesse modalità, allora possiamo stare certi che non di un caso si tratta, né di una sorta di sadico accanimento, ma di una domanda alla quale noi non abbiamo saputo ancora fornire la risposta giusta, elaborando un atteggiamento spirituale adeguato.
Può accadere, ad esempio, che una persona debba fronteggiare due volte, o magari anche tre, la stessa, lacerante situazione, come quella di veder morire una persona cara, in un certo modo; o di vederla cadere nel precipizio della depressione; o di sentirsi impotente davanti alla stessa malattia, allo stesso malessere esistenziale.
Non vi è alcuna ironia sottesa a tali ripetizioni, ma - al contrario - una pedagogia che può apparire aspra solo a chi giudichi le cose secondo le apparenze; mentre, nella sua essenza, essa è estremamente amorevole: perché solo nella ripetizione si finisce per andare al fondo delle proprie esperienze dolorose, allorché il nostro istinto sarebbe, invece, quello di allontanarcene il più in fretta possibile, non appena il peggio sia passato.
Ma sarebbe un atteggiamento sbagliato.
Tutto quello che ci viene incontro nella vita ha un significato: sempre. A maggior ragione se si tratta di una sofferenza: perché le gioie raramente insegnano qualcosa, e il tran-tran quotidiano meno ancora. In pratica, esistono solo due maniere di imparare qualcosa dalla vita: lo studio e la sofferenza; e la sofferenza è come un corso, concentrato e accelerato, delle più alte perle di saggezza che siano mai state scritte nei libri o trasmesse, oralmente, da qualche illuminato maestro ai suoi discepoli.
A volte ci inganniamo; a volte scambiamo uno squarcio di cielo azzurro per la primavera, mentre è ancora pieno inverno. L’esploratore Henry Hudson concluse tragicamente la sua carriera e la sua vita, nel 1610-11, scambiando le vaste acque della Baia di Hudson per un mare aperto che lo avrebbe condotto all’Asia, attraverso il Pacifico; e le costeggiò dapprima con esultanza, poi con rabbioso accanimento, per arrendersi, infine, davanti alla dura verità: che quella vasta baia non portava da nessuna parte e che, al sopraggiungere del gelo, la morsa dei ghiacci avrebbe imprigionato la sua nave in un mortale abbraccio.
Quante volte, nella nostra vita, abbiamo scambiato una baia senza uscita per l’inizio di un mare sconfinato, per un trampolino verso chissà quali balzi in direzione della pienezza esistenziale, della felicità, dell’appagamento di tutti i nostri sogni? Ma la felicità non consiste nell’appagamento dei sogni basati sull’avere, bensì su di una riscoperta del nostro essere, nella sua nuda ed essenziale povertà, nella sua luminosa sostanza.
Ebbene, dobbiamo imparare a fare il percorso inverso: cioè dobbiamo imparare a riconoscere i segni di ciò che è grande, in ciò che è piccolo; di ciò che è libero, in ciò che è costretto; di ciò che profuma d’infinito, in ciò che sa di chiuso. Perché la chiave per spalancare la porta sul grande, sul libero, sull’infinito, l’abbiamo in mano noi e noi soltanto. Da sempre; da prima ancora di venire al mondo con la nostra nascita fisica.
Al tempo stesso, dobbiamo imparare dai nostri simili: dalle loro sofferenze, dai loro errori, dalle loro cadute, dalle loro riprese. Dobbiamo imparare a considerare nostri simili tutti i viventi, animali e piante compresi; e abituarci a trarre profitto dalla loro osservazione. Infine, dobbiamo imparare anche dalle presenze che non vediamo e che, probabilmente, non vedremo mai.
Nel film «Dersu Uzala», di Akira Kurosawa, il protagonista, un cacciatore siberiano, lascia nella capanna ove ha pernottato, del sale, del fuoco e un po’ di riso. Interrogato dal capitano russo perché lo faccia, egli risponde che lo fa per coloro che giungeranno in quell’angolo della foresta, forse stanchi e infreddoliti: troveranno così del cibo e la possibilità di accendere il fuoco.
Del resto, non è un gesto simile a quello di chi, vedendo un sasso sulla strada, lo scosta, per evitare che qualche bicicletta possa urtarlo e qualche sconosciuto, farsi male?
Non è importante che il “tu” sia materialmente davanti a noi; quello che conta è che noi ci mettiamo in atteggiamento di ascolto, di apertura, di arricchimento. Perché togliere il sasso dalla strada farà del bene, forse, al ciclista che transiterà fra un minuto, fra un’ora o fra un giorno, risparmiandogli una rovinosa caduta; ma fa sicuramente del bene a colui che ha compiuto quel gesto, rivelandogli il profondo legame che lo collega con tutti i viventi e con tutte le cose che esistono nell’universo, anche quelle in apparenza più lontane.
Questo tipo di atteggiamento verso l’esistente, benevolo e compassionevole, ma privo di ogni forma di attaccamento egoistico - a cominciare dall’attesa dell’altrui riconoscenza e dell’altrui simpatia, benevolenza e affetto - è l’abito mentale che favorisce la presa di coscienza sulla natura e sul significato ultimo del nostro essere nel mondo. Grazie ad esso, noi diveniamo in grado di comprendere quello che, altrimenti, rischia di rimanere celato per sempre alla nostra vista: che noi non siamo qui per caso; che siamo qui per innalzarci e per fare del bene; che la nostra sofferenza non va sprecata, ma serve ad illuminare la strada di altri che verranno dopo di noi e che, forse, dovranno ricalcare esattamente i nostri stessi passi.
Chi avanza per primo, nella neve alta, fa molta più fatica di chi gli viene dietro: tale è anche l’esperienza della sofferenza per colui che si trova ad affrontarla in avanscoperta, precedendo i suoi simili che, per il momento, ne sono al riparo. I suoi passi nella neve, frutto di tanta pena e sfinimento, non sono inutili: serviranno ad agevolare il procedere di altri esseri umani, a renderlo un po’ meno penoso; a farli sentire un po’ meno soli.
La pedagogia della vita è tutta qui.
Essa ci presenta incessantemente la stessa domanda, per favorire la nostra apertura al mistero dell’essere; per aiutarci a leggere ogni situazione, ogni bivio, ogni incontro e ogni distacco, come altrettanti elementi della nostra crescita e della nostra maturazione; per innalzare la nostra consapevolezza fino alle regioni superiori dell’armonia cosmica, alle quali siamo invitati a partecipare, anzi, a renderci conto che ne siamo parte integrante.
Quando incominceremo a renderci conto che la sofferenza non è un ostacolo che ci viene gettato fra le gambe per farci cadere, ma un trampolino per proiettarci con tutta l’anima verso la realizzazione piena e integrale del nostro Sé, allora e solo allora troveremo il giusto atteggiamento da adottare verso di essa: che non è quello della fuga, della rabbia o della depressione, ma quello della piena consapevolezza.
La consapevolezza del ruolo positivo che la sofferenza esercita nella nostra vita è, naturalmente, problematica; e, specialmente all’inizio, noi mettiamo in opera una forte resistenza contro di essa, perché vorremmo una cosa sola: che se ne andasse, che ci lasciasse liberi. Ed è normale che ciò accada, perché noi siamo fatti per la gioia e non per il dolore. Tuttavia, il mistero dell’esistenza consiste appunto nel fatto che, per essere abbastanza adulti da saper godere della vita, bisogna prima passare per la porta stretta della sofferenza.
Per questo sosteniamo che la felicità non può essere raggiunta quando la si ponga come un obiettivo da realizzare a qualsiasi costo, ma che essa, al contrario, ci viene data in premio solo quando abbiamo appreso almeno i rudimenti dell’arte del ben vivere. Arte che, in definitiva, si riduce a questo: saper accogliere con animo equanime e riconoscente tutto ciò che la vita stessa ci reca in offerta, tanto le gioie quanto i dolori.
Pretendere di allontanare i dolori dal nostro sentiero, per poter vivere una vita senza male, è una pericolosa forma di illusione. Il male vero non è quello che ci minaccia dall’esterno, ma è la nostra incapacità di metterci in armonia con l’esistente e la nostra assurda pretesa di far derivare il nostro benessere e il nostro equilibrio da cose che non dipendono da noi. Il male è la distorsione mentale per cui siamo disposti a riconoscere la bontà della vita solo quando essa ci manda cose buone, mentre ci mettiamo ad accusarla amaramente allorché ci presenta prove difficili.
Sono le prove difficili, infatti, che ci rendono migliori.
E solo diventando uomini e donne migliori diveniamo anche degni di essere felici.
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