fonte: L'Espresso
di Eduardo Meligrana
Nel porto della città calabrese un mercantile abbandonato è diventato una città dei disperati: centinaia di persone ci vivono tra topi, pidocchi e rifiuti. Un lager oltre ogni confine della vergogna
E' un vascello fantasma, un relitto che continua a restare a galla nonostante cada a pezzi. A bordo, un popolo di spettri disperati che convivono con topi, rottami, sporcizia: esseri umani a cui è stata negata ogni dignità. Nell'Italia incapace di fare i conti con l'immigrazione la storia della nave-lager di Crotone supera ogni classifica di vergogna. Il mercantile arrivò sulle coste calabresi quattro anni fa con un carico di "clandestini". Sulla fiancata il nome turco che incuoteva terrore alla cristianità: Genzihan ossia Gengis Khan, il flagello di Dio. Era una nave-madre dei trafficanti di uomini, che trasbordava i nuovi schiavi gettandoli in mare a bordo di gommoni.
Sessanta alla volta, su un pezzo di plastica lanciato verso il litorale ionico. Grazie a un aereo spia, la Guardia di finanza riuscì a individuarla e a far scattare l'abbordaggio: un'operazione da manuale, con gli scafisti turchi in manette e i loro passeggeri-vittime trasferiti nel vicino Centro di identificazione crotonese. Il mercantile catturato dalle Fiamme gialle venne condotto in porto e dimenticato dalle autorità: è diventato uno scheletro galleggiante. Poco alla volta, è caduto in rovina, saccheggiato, in parte incendiato: la torretta - completamente bruciata, come gli interni - sembra la metafora dell'impossibilità di guardare oltre.
Da molti mesi quel relitto è stato occupato da altri disperati, arrivati in Italia e intrappolati dalla burocrazia: gran parte di loro attende il riconoscimento dello status di rifugiati. Sono scappati dai conflitti in Iraq, in Kurdistan o dalla fame dell'Africa per ritrovarsi a vivere come paria, combattendo con i topi e lo sporco. E non hanno trovato nulla di meglio che barricarsi in queste cabine devastate. Vivono in una discarica tra rifiuti di ogni genere, stracci ammassati, pidocchi, topi, escrementi, afa di giorno e freddo di notte. Si lavano con secchi di acqua di mare, perché i bocchettoni che collegavano lo scafo con l'acquedotto sono stati chiusi. E' una babele di afghani, pakistani, malesi, curdi, iracheni, nigeriani.
Lo scafo è piegato su un fianco, solo un pezzo di legno marcio e instabile, che a malapena raggiunge la bitta, consente il collegamento con la terra ferma. Adesso sono in una trentina, ma in questo accampamento disumano il numero delle presenze e la nazionalità cambiano di continuo, come le condizioni che peggiorano di giorno in giorno. Nella ex cabina di comando, allestita a camera da letto, dormono stipate otto persone, afghani e pakistani, mentre il ponte e le stive - squallide al di là dell'immaginabile - sono territorio degli africani. Molti sono afflitti da malattie della pelle e piaghe. Uno di loro, fuggito dall'Iraq, dopo aver collaborato con "gli occidentali", mostra segni di torture e ferite da esplosione: "Ho perso il dito di una mano a causa di una bomba, avrei bisogno di essere operato, non si riesce ad andare avanti così". Più che della miseria, sostengono di essere ostaggi della burocrazia. In un misto di frasi italiane e inglesi stentate ripetono lo stesso lamento: "C'è chi si trova qui da pochi giorni, chi da oltre un anno. Non comprendiamo perché non ci vengono rilasciati i documenti: hanno le nostre impronte digitali, ci dicono sempre "domani" e ancora "domani", ci dicono di aspettare, ma siamo allo stremo, abbiamo bisogno d'aiuto".
Sopravvivono grazie alla carità. "Alle nove di sera, ma nemmeno tutti i giorni, una macchina della carità ci porta cibo, acqua, coperte e medicine". Si tratta del camper animato da decine di giovani crotonesi, volontari Caritas della parrocchia di "Santa Rita", organizzatisi su impulso di don Franco Lonetti. Sono quelli che fanno di più, insieme a Croce Rossa, Cgil, Arci e Forum del Terzo Settore con Katia Stancato. Emed, Icbal, Mezar, dignitosissimi nel loro dolore, piangono nel raccontare ciò che si sono lasciati alle spalle. "Siamo agricoltori, come i nostri padri e i nostri nonni. Abbiamo venduto tutto per pagare il viaggio verso l'Europa, non possediamo nulla: non possiamo tornare nei nostri Paesi perché ci ucciderebbero, come hanno già fatto con le nostre famiglie".
Emed l'afghano pensa alla madre anziana che ha dovuto abbandonare la propria casa, trasferendosi in Iran. Cecil, invece, è un giovane nigeriano, vive tra urina, materassi sudici e tappeti di rifiuti. Arrivare nella sua tana è come scendere all'inferno. Per evitare che i topi possano mangiargli le scarpe, le attacca più in alto che può a una maniglia arrugginita. Cerca di cucinare il pugno di riso che gli è avanzato, accendendo un piccolo fuoco sul ponte. Il tegame è un pezzo di un vecchio portellone bruciato, reso concavo. Mette le mani nell'acqua bollente per provarne la cottura. Cecil è sfiduciato e solitario: "Sono in Italia dal dicembre 2010, prima ero in Germania, mi trattavano bene lì; qui ho bisogno di tutto, mi sono anche ammalato".
La "Cengizhan" non è l'unico barcone della vergogna, ma l'ammiraglia di una flotta fuori da ogni civiltà. Nel porto sono ormeggiate altre tre navi sequestrate agli scafisti. "Anche quelle sono piene di gente come noi", confidano. Un cargo è popolato da una confusione di etnie, l'altro è stato colonizzato dai profughi curdi, un popolo senza patria. Dalle murate arrugginite si affacciano in undici, piagati dal sole e dalle zanzare, ma fieri della loro identità: "Cerchiamo un lavoro qualunque: siamo elettricisti, studenti, meccanici. Ci basta un impiego e un posto decente dove dormire. Non siamo delinquenti, non siamo animali. Perché dobbiamo vivere così?". Psmam, Omar, Mahammud, Raschid e Abdull raccontano odissee in fotocopia, sballottati dai governi in attesa dello status di rifugiati: "Molti di noi sono stati in Inghilterra, in Danimarca, in Finlandia, in Svizzera e poi ci hanno rispedito a Crotone". Soran piange: "Io ho moglie e figlio in Inghilterra non li vedo da tre anni. Siamo scappati dal Kurdistan cercando un futuro, ma nessuno mi ascolta".
A pochi chilometri dal porto c'è il Centro di identificazione costruito intorno all'aeroporto di Crotone: è il campo più grande d'Europa, dove atterrano senza sosta i voli da Lampedusa. Smistano le ultime ondate umane fuggite dalla guerra di Libia, dalle rivoluzioni del Maghreb e dai massacri d'Africa. Altri disperati che verranno abbandonati su una strada. E che andranno ad aumentare la ciurma della flotta senza speranza.
La "Cengizhan" non è l'unico barcone della vergogna, ma l'ammiraglia di una flotta fuori da ogni civiltà. Nel porto sono ormeggiate altre tre navi sequestrate agli scafisti. "Anche quelle sono piene di gente come noi", confidano. Un cargo è popolato da una confusione di etnie, l'altro è stato colonizzato dai profughi curdi, un popolo senza patria. Dalle murate arrugginite si affacciano in undici, piagati dal sole e dalle zanzare, ma fieri della loro identità: "Cerchiamo un lavoro qualunque: siamo elettricisti, studenti, meccanici. Ci basta un impiego e un posto decente dove dormire. Non siamo delinquenti, non siamo animali. Perché dobbiamo vivere così?". Psmam, Omar, Mahammud, Raschid e Abdull raccontano odissee in fotocopia, sballottati dai governi in attesa dello status di rifugiati: "Molti di noi sono stati in Inghilterra, in Danimarca, in Finlandia, in Svizzera e poi ci hanno rispedito a Crotone". Soran piange: "Io ho moglie e figlio in Inghilterra non li vedo da tre anni. Siamo scappati dal Kurdistan cercando un futuro, ma nessuno mi ascolta".
A pochi chilometri dal porto c'è il Centro di identificazione costruito intorno all'aeroporto di Crotone: è il campo più grande d'Europa, dove atterrano senza sosta i voli da Lampedusa. Smistano le ultime ondate umane fuggite dalla guerra di Libia, dalle rivoluzioni del Maghreb e dai massacri d'Africa. Altri disperati che verranno abbandonati su una strada. E che andranno ad aumentare la ciurma della flotta senza speranza.
Una vergogna, non c'è altro da dire. purtroppo non è il solo centro dove vengono ammucchiate "persone", i fatti di Bari parlano da soli.
RispondiEliminaNotte e grazie per il prezioso contributo
a presto
Ciao Wiska, sì vergogna ...ma non esprime davvero quello che sento, che è anche rabbia e senso di impotenza.
RispondiEliminaQuesti sono i risultati di anni di pretestuose "dimenticanze" di ipocrisie mosse da un "razzismo" strisciante che ormai sta penetrando ovunque.
Un abbraccione ^^
Namastè