Immagini da un Natale differente, nei luoghi più raccontati in questi giorni. La realtà, però, parla di occupazione.
PeaceReporter
scritto per noi da
Angelo Calianno
I giornali e le televisioni europee parlano dei negoziati di pace, commentano l'incredibile ascesa del turismo religioso a Betlemme, cresciuto del 50 percento rispetto a due anni fa. Una nuova ondata di pellegrini si prepara ad invadere la piazza della basilica della Natività per fotografare il grande albero di Natale di quest'anno.
Ma ai turisti si dice di non allontanarsi troppo dai loro percorsi, che è pericoloso, che nessuno si prende la responsabilità di quello che può accadere qui. A pochi chilometri dai luoghi sacri di Gerusalemme, di Betlemme e di Nazareth l'aria che si respira è tutt'altro che natalizia. Migliaia sono le voci dimenticate dei palestinesi nei Territori Occupati dai coloni o come vengono chiamati qui i settlers, le voci dei soldati che appena 18enni vengono mandati nelle a presidiare zone da cui vorrebbero essere lontani anni luce.
Tutte queste voci si scontrano ed urlano, inasprite ancor più dalle differenze che in questo periodo di celebrazioni, rende le loro distanze ancora più grandi. Il centro di Hebron è occupato dai coloni ebrei. Un gruppo di settecento ebrei che vive all'interno di mura e recinzioni metalliche nel centro della città. Alla fine del mercato dirigendosi verso la grande Moschea, c'è una lunga rete metallica che copre le teste di chi ci cammina sotto.
"Serve per proteggersi", mi dice un ragazzo che passa di lì. "I settlers dalle loro finestre gettano immondizia, sedie, bottiglie, tutto sulle nostre teste, molti dei negozi hanno dovuto chiudere perché la gente non riusciva più a vivere così.
I negozi nel mercato dei polli e del pesce sono stati chiusi definitivamente la scorsa estate con la fiamma ossidrica, erano troppo vicini alle case dei settlers. I coloni sono settecento oggi, per ognuno di loro il governo israeliano ha mandato quattro soldati a proteggerli, le nostre strade sono invase da più di tremila soldati, hanno occupato la nostra terra, ma so che bruceranno all'inferno per quello che stanno facendo".
Mohammed mi porta in casa sua, mi mostra un'ala della costruzione con le finestre sbarrate e del nero di fuliggine intorno agli archi: "Qui i soldati due anni fa gettarono delle molotov dalle finestre, mio padre si avvicinò per spegnere il fuoco e venne colpito da un proiettile in testa, io da un altro vicino al cuore, il dottore ha detto che non posso rimuoverlo, altrimenti morirei. Da allora abbiamo chiuso queste finestre e non le abbiamo più riaperte. Bombardano le nostre case, sparano contro le nostre cisterne d'acqua, come possiamo non combatterli? Lo facciamo con quello che abbiamo, se abbiamo delle pietre le lanciamo, se abbiamo un'arma allora dobbiamo usarla".
In molti dei negozi ed in alcune case ci sono poster e bandiere raffiguranti volti di giovani ragazzi.
Quei volti appartengono ad i ragazzi saltati in aria in missioni suicide, ingaggiati da Hamas per la nuova guerra santa.
Ma i ragazzi ebrei, quelli nati in Israele negli anni Ottanta e Novanta, quelli che non hanno mai puntato un'arma contro qualcuno, come vivono questa situazione? Un ragazzo Israeliano di nome Amir mi dice: "Credo sia ingiusto quello che la mia nazione ha fatto 62 anni fa, posso chiedere scusa per loro, ma non posso essere responsabile di quello che accade, dei bombardamenti o delle rappresaglie dei soldati, io voglio solo fare il mio lavoro, vivere la mia vita. L'odio verso gli ebrei è grande, ma non possono ritenerci tutti responsabili degli errori del nostro governo, e come se io odiassi i tedeschi considerandoli tutti colpevoli dell'Olocausto".
Jonas è un ragazzo di appena venti anni, è un soldato qui ad Hebron, ha il viso bianco senza un filo di barba, i suoi nonni emigrarono ad Haifa in Israele dalla Polonia dopo la guerra. Jonas ha l'espressione di chi vorrebbe trovarsi in qualsiasi altro posto tranne che questo: "Io non sapevo nulla del conflitto, a dire la verità so poco di storia, ma dobbiamo servire il nostro paese per tre anni, altrimenti finiamo in galera. Mi piaceva fare il militare ad Haifa, ho fatto molte amicizie ed il fine settimana potevo tornare a casa dai miei genitori che vivono vicino al mare. Poi mi hanno mandato qui per quattro mesi, dobbiamo controllare tutti quelli che si avvicinano, dobbiamo chiudere i negozi e "ripulire" le strade dai palestinesi quando i coloni escono per andare in sinagoga, i superiori mi hanno detto che potrebbe esserci un'esplosione da un momento all'altro e di non fidarsi di nessuno".
Storia nella storia è quella dei Palestinesi che vivono all'interno degli insediamenti ebrei, cinquanta persone che occupano case all'interno dei settlment: una resistenza nell' occupazione. "Recentemente i coloni", racconta un 23 enne palestinese di nome Islam, "invece di usare la violenza ci hanno offerto del denaro per abbandonare queste case, abbiamo rifiutato e così con gli spray scrivono ''Gas the Arab'' sulle nostre porte, sparano contro le cisterne sui nostri tetti in modo da non lasciarci raccogliere l'acqua, ma noi non ce ne andremo, queste sono le nostre case".
Hebron purtroppo non è l'unica città ad avere i coloni presenti nel proprio territorio. Nablus è un altro simbolo della strenua resistenza contro Israele, una delle città più antiche della Palestina, una delle più belle chiamata la piccola Damasco, ma anche qui la tranquillità è solo una parvenza. In una casa di pietra dai muri spessi, un signore di nome Fadi racconta ciò che accade: "Ogni notte qui a Nablus i coloni sulle montagne intorno mandano i soldati per catturare qualcuno che credono essere connesso con Hamas. Alcuni collaborazionisti palestinesi segnalano per denaro dei nomi agli israeliani che irrompono nelle case ed arrestano le persone segnalate. Nessuna notte può essere tranquilla".
Due ore dopo questo, quella stessa notte, i soldati israeliani fecero irruzione nella casa di Fadi, controllarono i nostri documenti e lo arrestarono portandolo via per interrogarlo, di lui non ho più avuto notizie.
Nonostante Gaza, "la porta dell'inferno", come la chiamano alcuni palestinesi, nonostante le condizioni in cui vivono i rifugiati con il sessantotto percento di disoccupazione, tanti sono gli uomini e le donne israeliani e palestinesi che lottano per la pace, anche nei Territori Occupati, dove si sono visti gli scontri più tragici di queste terre.
Lo fanno lontano dai riflettori, lo fanno parlando ai loro vicini, ai loro familiari, cercando di avvicinarsi il più possibile alle ragioni altrui lo fanno per raccontare, come dicono alcuni gruppi di pacifisti, "l'altra faccia del mostro".
La gente non può far altro che aggrapparsi con tutte le forze ad immagini do speranza; immagini come quelle che si presentano ai nostri occhi ogni giorno, immagini come quella vista qualche giorno fa, quella di un bambino palestinese ormai abituato ai soldati ed ai fucili nei suoi vicoli che si avvicinò correndo veloce verso un soldato ad un posto di blocco.
Si avvicinò per toccare quell'uniforme, forse per mettere alla prova il coraggio di bambino.
Il serissimo soldato piegò le labbra verso un grande sorriso, forse il primo da quando era lì.
Diede la mano a quel bambino perché forse, non tutti i mostri sono come ce li hanno raccontati, forse questo dovremmo scrivere, nelle nostre lettere dal Medio Oriente.
http://it.peacereporter.net/articolo/25924/Lettere+dalla+Palestina
Ciao Rosa, un abbraccio grandissino pieno di amore non solo per questo periodo ma per sempre.
RispondiEliminaChe nella tua vita la gioia, la pace, l'abbondanza e l'Amore siano sempre tue compagne.
A presto, auguri
Maria
Appunto. Un'altra drammatica situazione assolutamente da non dimenticare.
RispondiEliminaMaria grazie per le belle parole, mi hanno commossa.
RispondiEliminaRicambio l'abbraccio e ti rimando l'augurio ;-)))
Namastè
Il giorno che i due popoli troveranno la pace e la convivenza pacifica,ognuno con le proprie tradizioni,quello sarà davvero un gran giorno,prima o poi arriverà,anche se al momento pare impossibile.
RispondiEliminaBuone festività a te,
&& S.I. &&
@ Ivo Serentha and Friends:
RispondiEliminaLo spero davvero anche se devo ammettere che spesso la pace appare così lontana e l'essere umano così stupidamente tenace nel suo amore per il combattimento ed il sangue...
Abbraccione :-)
Namastè
Tanti, tanti auguri: buon feste!
RispondiElimina(((CINEMAeVIAGGI)))
@ AmosGitai:
RispondiEliminaGrazie! Buonissime Feste anche a te!
Namastè