tratto da: www.gliitaliani.it
Un reportage di Riccardo Valsecchi
“Credo che voi non sappiate proprio nulla di quello che succede qui e ciò che viene pubblicato dai vostri media è spesso il frutto di pregiudizi e ignoranza.”
Parole forti, che risuonano nel cielo oscuro sopra Bam, l’altopiano dove migliaia di giovani s’incontrano ogni sera per ammirare le luci di Teheran e fuggire dallo smog e dallo stress della capitale della Repubblica Islamica Iraniana. A esprimersi così è Leila, una giovanissima ragazza con un lungo hijab verde, come il colore della speranza, come le bandiere dei manifestanti durante le proteste seguite alle ultime elezioni presidenziali 2009, vinte ancora una volta dall’ultra-conservatore Ahmadinejad.
Leila non è per nulla una conservatrice: vive da sola, è laureata, parla un inglese perfetto, non si esime certo dal commentare negativamente l’operato del suo governo, che definisce “medioevale e prepotente”. Inoltre, in un paese dove la legge vieta alle donne ogni contatto con uomini del proprio ambito familiare, offre, senza troppi problemi, ai viaggiatori stranieri conosciuti su internet tramite i social network, di fare da guida attraverso la città che il mondo occidentale dipinge come il centro del male di matrice islamica.
Ma qual è il senso delle parole precedenti allora?
Shirin Ebadi, avvocato e pacifista, è stata la prima donna iraniana, nonché musulmana, a ottenere, nel 2003, il premio Nobel per la pace in virtù del suo operato in difesa dei diritti umani. Dal novembre 2009 vive in esilio a Londra. ”Dopo la rivoluzione del 1979″, spiega Ebadi, “il governo approvò delle leggi discriminanti nei confronti delle donne. Per esempio, secondo la giurisprudenza iraniana il valore della vita di una donna è la metà di quello di un uomo. Ciò significa che se una donna e un uomo rimangono feriti in un incidente, i soldi che l’uomo riceverà come risarcimento per l’infortunio sarà il doppio di quello della donna. Inoltre, da un punto di vista legale, la testimonianza di due donne in un tribunale equivale a quella di un solo uomo.
Queste leggi, però, non rappresentano affatto la società iraniana:il 65% degli studenti universitari sono femmine e le donne costituiscono una componente attiva ai più alti livelli sociali, come dimostra la presenza all’interno del gabinetto presidenziale di Marzieh Vahid-Dastjerdi, ministro della Sanità. Le donne iraniane hanno acquisito il diritto di voto cinquant’anni or sono e da allora partecipano attivamente alla vita politica del Paese: attualmente tredici sono le deputate fra i 290 membri della Majlis, il Parlamento iraniano. Tantissimi sono poi i gruppi e le associazioni femministe attive sul territorio.”
Se da una parte, quindi, le donne iraniane, colte ed educate, ambiscono a sovvertire leggi che offendono la loro dignità femminile, dall’altra reclamano il diritto di scegliere il proprio futuro e di essere orgogliose della propria identità culturale.
Shadi Ghadirian è una fotografa di fama internazionale, i cui lavori sono esposti nei maggiori musei del mondo, dal British Museum di Londra al County Museum of Art di Los Angeles. Benché alcune delle sue opere più famose mettano in rilievo il ruolo contraddittorio della donna nella società in cui vive, come per esempio la Qajar Series, che consiste in portrait di donne vestite con abiti del XIX secolo accostate a oggetti moderni, quali mountain bike, quotidiani o Pepsi Cola, tutt’altro che rivoluzionario è il suo messaggio: “La mia arte non ha alcuna valenza politica, piuttosto sociale. L’accostamento d’antico e moderno ha un valore trascendentale che si rifà alla convivenza nella cultura iraniana, oggi come ai tempi della dinastia Qajar, di tradizione e innovazione. Se c’è una denuncia della condizione femminile nei miei lavori, non riguarda solo la società iraniana, ma piuttosto il mondo intero. Forse nel vostro mondo le donne sono più rispettate che qui?”.
Non è dello stesso parere Akram, che trascorre le giornate nei Caffenet ad ammirare le capigliature stravaganti e i vestitini sciccosi delle coetanee in rete, lottando contro DNS e proxy che bloccano l’accesso alla maggior parte dei siti web. Ogni tanto Akram si gira e osserva i maschietti intorno che esibiscono pettinature all’ultima moda, stile “emo”; allora si tocca il velo e lo porta sempre più indietro, chiedendosi perché, invece, lei è costretta a tenere questo pezzo di stoffa sul capo.
Eppure anche Akram s’infuria quando la discussione tocca argomenti di natura religiosa: “Perché quando leggo i post e i commenti su internet, la religione islamica viene accusata di essere il male che affligge il nostro popolo?”.
“Le leggi discriminatorie menzionate prima”, spiega ancora Ebadi, “sono state tutte approvate dopo la rivoluzione del 1979. Il governo asserisce che queste traggono origine dalla legge islamica, ma non è assolutamente vero, come testimonia il fatto che parecchi religiosi, quali l’Ayatollah Saneyi, l’Ayatollah Kadivar e l’Ayatollah Eshkavery rifiutano questa tesi. Il problema è che, non avendo potere politico, nessuno ascolta le loro parole. L’Iran è un paese a maggioranza islamica da secoli, ma è solo dopo la caduta dello Shah che punizioni quali la lapidazione o l’amputazione sono state inserite nel codice penale. Dieci giorni fa, a Kermanshah, un uomo, accusato di furto, è stato amputato della mano, mentre il procuratore generale ha annunciato che ci saranno altri casi simili a breve. Numerosi sono gli oppositori a questo genere di pene, anche fra il clero. Insieme stiamo cercando di cambiare la legge, ma fino a ora non ci siamo riusciti.”
“Dopo le proteste del 2009“, continua il premio Nobel, “poco o nulla è cambiato per quello che riguarda la condizione delle donne. Anzi, molte attiviste, come Mansoorch Shojacee, Nasrin Sotodeh e Bahareh Hedayat, sono state processate per avere agito contro la sicurezza nazionale. La lotta per i diritti umani non ha avuto una svolta positiva, anzi la legge è diventata, se possibile, ancora più restrittiva.”
Ma in che modo la comunità internazionale può aiutare le donne iraniane?
“Raccontando ciò che realmente succede in Iran”, risponde Ebadi, “e sostenendo con la protesta le donne iraniane che lottano giorno dopo giorno contro la discriminazione. Certo è che uneventuale attacco militare – come si vocifera spesso sui media occidentali – non farebbe altro che peggiorare la situazione: il governo ne approfitterebbe per reprimere del tutto attivisti e movimenti d’opposizione, adducendo come scusa la sicurezza nazionale.”
Sahar ha ventiquattro anni e studia italiano. Anche lei veste verde smeraldo e guida la propria autovettura come una forsennata in mezzo all’incredibile traffico di Teheran. Le squilla il cellulare e la suoneria intona una canzone nota: la “Bella Ciao” partigiana, il canto popolare delle mondine padane adottato dalla resistenza italiana durante la seconda guerra mondiale. “È vero”, chiede Sahar innocentemente, senza comprenderne bene il testo, “che questa canzone è stata scritta per noi, per le donne iraniane?”. No, è stata scritta per tutte le donne del mondo che sognano la libertà, qualsiasi religione esse professino.
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