PECHINO. Per la prima volta dal 1936, nessuno ha potuto ritirare il premio assegnato al dissidente. Appello di Obama per il suo rilascio. Inutili gli sforzi di Pechino di far passare tutto sotto silenzio.
Un diploma poggiato su una sedia vuota, un gesto simbolico destinato a rimanere nella storia della lotta per i diritti umani e la democrazia. Sul palco allestito nel municipio di Oslo per la consegna del Nobel per la pace, l’unica traccia tangibile di Liu Xiabao è stata la gigantografia del suo volto sorridente, alla quale la folla dei presenti ha tributato due standing ovation nel corso della cerimonia. A mitigare l’assenza del vincitore non c’è stata neppure la presenza di un suo familiare o di un suo congiunto, tenuti tutti sotto custodia dalle autorità cinesi. Liu ha potuto far sentire la propria voce solo grazie al suo discorso tenuto davanti ai giudici nel dicembre del 2009 nel corso del processo che lo ha visto condannato a 11 anni di prigione per sovversione, letto alla platea dall’attrice e regista norvegese Liv Ullmann.
I giornali di mezzo mondo hanno ricordato che una circostanza simile si era verificata solo un’altra volta nella storia del premio, quando nel 1936 il giornalista e pacifista tedesco Carl von Ossietzky non aveva potuto ritirare il Nobel per la pace che gli era stato assegnato perché rinchiuso in un campo di concentramento nazista. E il presidente del comitato per l’assegnazione del premio, Thorbjoern Jagland, ha paragonato questo conferimento a quello storico ottenuto da Nelson Mandela nel 1993 per la sua battaglia contro l’apartheid.
La fragorosa opposizione di Pechino alla consegna del Nobel a Liu ha finito così per sortire effetti diametralmente opposti a quelli desiderati, amplificando a dismisura l’eco mediatica della cerimonia e trasformandola in un momento simbolico di confronto tra i sostenitori della democrazia e i suoi detrattori. Barack Obama ha rivolto un appello diretto a Pechino chiedendo la liberazione dell’intellettuale cinese, che secondo il presidente rappresenta «valori universali» e «merita il Nobel molto più di me lo scorso anno». Alla richiesta del leader Usa si sono associati anche il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton e l’alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, criticata nei giorni scorsi per la sua decisione di non presiedere alle cerimonia e di restare invece a Ginevra per le celebrazioni della Giornata internazionale dei diritti umani. Le pressioni dell’Unione europea hanno convinto la Serbia a rivedere la propria decisione di non partecipare alla consegna: all’ultimo momento Belgrado si è convinta a inviare a Oslo una delegazione di basso livello, riducendo il fronte degli assenti da 19 a 18 Paesi.
Neppure in Cina, dove molti siti internet sono stati oscurati e dove un meticoloso controllo delle forze di polizia e di sicurezza è stato approntato in tutti i luoghi ritenuti a rischio (da Piazza Tienanmen alla casa dove è detenuta Liu Xia, moglie di Liu), il conferimento del Nobel è passato completamente sotto silenzio. Un gruppo di un centinaio di persone si è riunito davanti alla sede delle Nazioni unite di Pechino per manifestare il proprio appoggio a Liu. Per disperderli è stato necessario l’intervento delle forze dell’ordine. Una crepa evidente negli ingranaggi della macchina della censura, che appare sempre più inadeguata davanti al crescente bisogno di democrazia del popolo cinese.
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