martedì 1 marzo 2011

Petrolio bollente e stupri. Violenze contro le donne in Libia e affari italiani

tratto da: HumanitaUomo

“In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no”. Parole di donne. Parole pronunciate da nigeriane, etiopi, eritree, somale che erano riuscite ad arrivare a Lampedusa. Era il 2009. L’Italia sapeva e taceva.

Gli accordi bilaterali Italia-Libia, firmati e rifirmati annualmente, hanno portato alla costruzione di quella ventina di campi di detenzione per immigrati/e, veri e propri lager [si vedano le foto di Fortress Europe], dove le donne vengono sistematicamente violentate dai loro aguzzini libici pagati coi soldi italiani.
Con la “sanatoria” dell’estate 2010 erano stati svuotati i lager libici costringendo al lavoro schiavistico le donne e gli uomini che ne uscivano; nel dicembre successivo altri 1500 fra uomini e donne sono stati rinchiusi/e in cinque centri di detenzione per “migranti irregolari” – Twisha, Zawia, Zwara, Garabulli, Surman e Sebha.
Nel dicembre 2007, il governo Prodi aveva firmato un accordo per l’avvio dei pattugliamenti congiunti italo-libici davanti alle coste africane.
Il 30 agosto 2008 era stato firmato a Bengasi il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” fra Italia e Libia. Con quest’ultimo trattato, che oggi il ministro della guerra La Russa spaccia per “sospeso” (per accaparrarsi un posticino in un eventuale intervento della Nato nel Mediterraneo), il governo italiano dava a Gheddafi 5 miliardi da investire in infrastrutture e pattugliamenti dei confini terrestri, per contrastare i flussi di migranti via mare e, soprattutto, per rafforzare gli intrallazzi economici. Lo dimostra il conseguente ingresso della Libia nell’Eni con una quota di capitale rilevante che, in tre fasi, avrebbe dovuto farla diventare seconda azionista dopo lo Stato italiano, che ne possiede il 30%.
800mila barili di petrolio e 280mila barili di gas metano sono estratti ogni giorno dall’Eni in Libia, dove è presente fin dalla fine degli anni ‘50 con investimenti, in prospettiva, stimati sui 15 miliardi di euro. Nel 2007 l’Eni ha concluso un accordo strategico con la società di Stato libica Lnoc, che le ha consentito di prolungare fino al 2042 la durata dei suoi titoli minerari per l’estrazione di petrolio nel Paese e fino al 2047 quelli per l’estrazione di gas. Per non parlare del business delle armi chimiche vendute, all’inizio degli anni ’90, dall’allora EniMont alla Libia (nonché a Iran e Iraq…).
“Le attività [in Libia] proseguono nella norma senza conseguenze sulla produzione” afferma l’Eni in un comunicato del 21 febbraio 2011, mentre le truppe di Gheddafi, coadiuvate da mercenari anche italiani, stanno sterminando gli insorti usando armi italiane prodotte dal Gruppo Finmeccanica.
E non è che una pagliuzza…

Se la sola Camera di commercio italo-libica di Roma ha registrato, nei primi nove mesi del 2009, 2.627 fatture per un valore di più di 357 milioni di euro di export, non bisogna dimenticare che gli investimenti libici in Italia vanno dalle banche (Unicredit) all’edilizia (in primis Impregilo e Italcementi), alle auto (Fiat), alle telecomunicazioni (Telelit) fino alla moda e allo sport – per non fare che alcuni esempi.
Di fronte a questi fiumi di denaro che ingrassano la tasche di governi e imprese, che valore possono avere i corpi delle donne libiche che, come in Sudan, vengono stuprate per essersi ribellate al regime?
Che valore possono avere i corpi delle donne migranti torturate e stuprate nelle carceri e nei centri di detenzione libici?
E che valore possono avere le vite delle centinaia di vittime di tratta, soprattutto nigeriane, che nei bordelli libici hanno subìto l’“iniziazione” a quella prostituzione forzata che le costringe, poi, ogni giorno sulle strade periferiche delle nostre città? Donne che, dalla prima ribellione durante la tappa forzata in Libia, vengono violentate e torturate con il petrolio bollente – come hanno raccontato alle operatrici di Be Free molte donne recluse nel lager romano di Ponte Galeria.

12 commenti:

  1. Non lo posso leggere.
    Lo condivido su Fb.
    Ciao cara
    Namastè

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  2. Se si deve morire inutilmente per la bella vita degli oppressori tanto vale morire combattendo!

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  3. Nella nostra società ci si dovrebbe sdegnare ben di più! E prepararsi a mandare in galera i complici italiani.

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  4. Ciao Rinverinflood, personalmente sono per la non-violenza, ma concordo assolutamente sulla necessità di ribellarsi.

    Una buona serata :-)
    Namastè

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  5. Assolutamente sì Adriano, perchè tutto ha inizio dall'ignavia e dall'ipocrisia dei mandanti. Le scelte scellerate dei "profeti" dei respingimenti, hanno creato le premesse perchè tutto questo avvenisse ed è con il nostro denaro che lo hanno reso possibile...

    Buona serata :-)
    Namastè

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  6. Resto muto in un terribile silenzio

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  7. Ciao Max Loy! Lo capisco... è agghiacciante!

    Abbraccio
    Namastè

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  8. Ribellarsi è giusto, facendo attenzione che i ribelli non siano mossi da qualcuno - Al Qaeda - che farebbe passare la popolazione da una brace all'altra.

    Per il resto, è sempre più uno schifo.

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  9. Beh Paòlo, di fronte a drammi di questa portata lo sdegno e la ribellione sono leciti, certo le strumentalizzazioni sono possibili, ma restano i fatti e sono agghiaccianti.
    Al Quaeda e gli equilibri del Sud mediterraneo sinceramente restano fuori dall'orrore che provo per queste cose, mentre la politica italiana dei respingimenti è sicuramente concausa di questo fenomeno.

    Una buona serata a te :-)
    Namastè

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  10. Una vergogna italiana in primo luogo.

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  11. Sara, ultimamente quando c'è da vergognarsi, l'Italia è in prima fila...e sappiamo chi ringraziare no?

    Ti abbraccio ^_^
    Namastè

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