giovedì 9 dicembre 2010

Economia del Dono

di Simone Serpe

Agli inizi degli anni ’80 veniva fondato in Francia il M.A.U.S.S. ovvero il Movimento Anti Utilitarista nelle Scienze Sociali. Il Movimento nasceva dalla necessità di compiere un’opera di critica della ragione utilitarista, che era divenuta (e che continua ad essere) la filosofia sociale ed economica dominante. Al concetto dell’homo oeconomicus moderno, tutto compreso in un paradigma egoistico, funzionale, razionale, e dunque utilitarista (è l’egoismo del macellaio a far sì che la carne che vende sia la migliore al miglior prezzo possibile, sosteneva Adam Smith), gli antiutilitaristi contrappongono la riscoperta dell’opera di uno scienziato di inizio secolo, Marcel Mauss, centrata sulla possibilità di ricreare, così come era stato per le società arcaiche, un individuo olistico, in cui l’economia diventa un elemento all’interno di un tessuto di interrelazione e interdipendenza tra i componenti di un gruppo o di una società.

Alain Caillé (uno dei fondatori e massimi esponenti del M.A.U.S.S.) ha rintracciato nella “economia del dono” questa possibilità. Dono significa donare, ricevere, restituire (Alain Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri), ossia costruire una intesa tra individui, in cui, contrariamente ai dettami dell’economia come la conosciamo, lo scambio può essere non razionale e dunque non avvenire alla pari (esempio classico: il prezzo si forma dall’incontro aritmetico fra domanda e offerta).
Al contrario, in Caillé lo scambio non è dominato dalla razionalità ma dalla relazione.
L’economia classica prevede una serie di rapporti di forza (la domanda e l’offerta dell’esempio) in perenne ricerca di equilibrio (la formazione del prezzo), soddisfatto il quale il legame si scioglie. Nell’economia del dono, è appunto il continuo disequilibrio determinato dal dono a costituire necessariamente una serie di relazioni, aspettative, interdipendenze, su cui si fonda la formazione dell’homo politicus.
Immaginiamo che un soggetto paghi per un bene o una prestazione un prezzo maggiore del suo valore effettivo. Crea così un vincolo verso la controparte, un legame, che si protrae oltre la portata economica dello scambio, un debito morale che prima o poi potrà essere saldato.
Immaginiamo che tali relazioni si instaurino ad ogni scambio tra tutti i membri di una comunità. Si verrà a definire in questo modo un altissimo livello di coesione e connessione sociale. Ormai esistono solo echi di comunità che si sostengono su un’idea o un ricordo di economia del dono.
Un articolo comparso su un vecchio numero della rivista «Le Scienze» (aprile 2005), riporta le conclusioni di uno studio antropologico condotto da una equipe di scienziati statunitensi su un gruppo etnico della Tanzania, i Sukuma. Agli inizi degli anni ’80, alcuni villaggi Sukuma nel nord del paese, non fidandosi delle corrotte istituzioni pubbliche, per contrastare le razzie di bestiame da parte di bande irregolari di soldati ugandesi, crearono dei comitati locali autonomi, i Sungusungu, una sorta di corpo di vigilantes con funzioni giurisdizionali e di polizia.
Il nome stesso rivelava il carattere dei Sungusungu. In swahili, infatti, il termine designa una specie di formiche particolarmente cooperative e aggressive. Il successo di questi tribunali speciali fu folgorante: nel giro di un anno, pur in un paese vasto e con strutture di comunicazione quasi assenti, tutti i villaggi della etnia Sukuma sparsi per la Tanzania adottarono il nuovo sistema, e le stesse autorità nazionali tanzaniane si videro costrette, dopo un primo tentativo di censura, a riconoscerlo ufficialmente.
Un gruppo etnico rivale dei Sukuma, i Pimbwe, rifiutarono i Sungusungu, e come risposta cercano di creare delle proprie istituzioni alternative. Però, anche se ricalcarono fedelmente le strutture dei Sungusungu, il loro esperimento naufragò in brevissimo tempo.
Il gruppo di scienziati ha cercato di comprendere le ragioni di questa difformità, giungendo a conclusioni davvero interessanti.
I Sukuma sono celebri per la eccezionale reputazione di ospitalità e generosità.
I Pimbwe, al contrario, presentano strutture sociali molto chiuse e diffidenti verso l’esterno.
Per dimostrare scientificamente queste caratteristiche, si pensò di sottoporre ad un esperimento due campioni selezionati appartenenti ai due diversi gruppi. Ispirandosi alla teoria dei giochi sviluppata dagli economisti, gli studiosi presentarono alle “cavie” il cosiddetto “gioco dell’ultimatum”. Esso consiste nel scegliere due soggetti a caso, ed offrire ad uno di loro una somma X di denaro. Costui, il proponente, era invitato ad offrire al secondo soggetto una cifra a suo piacere (Y) prelevandola dalla somma X. Se il ricevente accettava tale offerta, ognuno poteva trattenere la relativa somma che rimaneva a sua disposizione (ovvero, al proponente rimaneva la cifra corrispondente a X meno Y, e al ricevente la cifra Y), ma se il ricevente rifiutava l’offerta entrambi perdevano tutto. Secondo la logica economica classica, il proponente dovrebbe cercare di offrire la cifra più bassa possibile cercando però di non urtare la sensibilità del ricevente; il ricevente dovrebbe invece accettare l’offerta qualunque sia la sua entità: anche pochissimo è comunque meglio di niente.
I risultati del test furono i seguenti: i Sukuma offrivano mediamente il 61% della cifra data loro in dotazione se il ricevente faceva parte dello stesso villaggio, mentre scendeva al 52% se il ricevente era di un villaggio diverso. L’offerta dei Pimbwe era invece del 43% per gli intra-villaggio e di solo il 15% per gli extra-villaggio.
Questo modo di intendere le relazioni personali ed economiche si riverbera sulle strutture sociali dei due gruppi.
Ad esempio, l’economia dei Pimbwe si basa fondamentalmente sulla caccia locale e non richiede una collaborazione su vasta scala. Tra i Pimbwe sono rare le istituzioni destinate a governare le istanze dei singoli al di là dell’ambito del clan o del villaggio.
Anziché la collaborazione, i Pimbwe privilegiano l’affiliazione gerarchica e la divisione in clan.
Per i Sukuma è l’opposto. Fin dall’inizio del XX secolo gli etnografi erano rimasti stupiti nel verificare come le loro strutture istituzionali, per proteggere la proprietà, risolvere conflitti, organizzare eventi, fossero tutte rivolte alla fiducia e al gioco di squadra. Se si allarga il discorso al benessere dei due gruppi etnici, appare evidente come i Sukuma stiano “vincendo” la competizione con i Pimbwe.
Gli autori dello studio hanno infatti verificato che i bambini Sukuma hanno un buonissimo livello di crescita e di salute, mentre i Pimbwe non sono altrettanto efficienti nel soddisfacimento dei propri bisogni quotidiani. Insomma, le istituzioni che si basano sul dono hanno più vitalità e creano maggior benessere rispetto a quelle che si costituiscono su egoismo e rivalità.
L’obiezione che, siamo sicuri, verrà in mente a molti leggendo queste pagine, è che questa analisi può avere una sua validità in un ambito socio-economico semplice, ristretto, arcaico, mentre non potrebbe esplicare la sua efficacia in società moderne, complesse ed evolute come quelle occidentali.
A leggere gli insegnamenti della storia pare proprio così.
Infatti, come si diceva, il modello economico risultato vincente nelle nostre società è stato quello neoliberista anglosassone, intimamente basato sull’egoismo, la competizione, la divisione.
Ma, a leggere bene i fatti, ci accorgiamo che tale modello non ha vinto per sua intrinseca capacità di diffusione e convincimento, ma è stato sempre accompagnato da spinte ideali di dominio, di conquista e forza.
Tornando alle nostre popolazioni africane, ci pare improbabile che i Sukuma, pur avendone la forza, imporrebbero mai ai Pimbwe le loro strutture sociali, mentre all’opposto non ci meraviglieremmo che i Pimbwe, se potessero, cercherebbero di imporre le loro ai Sukuma.
Le domande che noi occidentali dobbiamo porci sono allora queste: cosa abbiamo da guadagnare noi europei continentali da un modello di sviluppo come quello capitalistico finanziario anglosassone? La nostra cultura e storia non trova forse corrispondenza con ideali che si accostano maggiormente ad economie del dono o similari, basate sulla collaborazione, la comunione, la coesione?
In un contesto di economia della decrescita, o come è stato magistralmente definito, di "piacere della misura", ovvero un sistema economico che produca più valore e meno merce, l'economia del dono può essere un paradigma su cui riflettere ed essere in definitiva più "conveniente" rispetto allo sviluppismo consumista. Insomma, un esempio di "utilitarismo" dal volto umano.

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