venerdì 10 dicembre 2010

Hispaniola. La vita, il vodoo (e la morte) ai tempi del colera

fonte: Terra
Marco Sacchetti
REPORTAGE. Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Marco Sacchetti, giornalista e fotografo italiano che da anni vive ad Haiti. «L’unione fa la forza» in una popolazione stremata dalle conseguenze del terremoto e da un’epidemia che non lascia scampo.

Il flagello pandemico si espande inesorabilmente contaminando le altre province haitiane. Oltre 150 persone sono morte negli ultimi giorni nella parte sud-ovest di Haiti (dipartimento di Grand Anse), presso comunità isolate in cui spesso la malattia viene associata alle pratiche di stregoneria. Le cronache riportano in questa zona il linciaggio di 12 o 14 persone, massacrate a colpi di machete e bruciate per strada perché accusate di aver propagato il virus. Altri casi registrati in Port-de-Paix, Les Cayes e nella cittadina portuale di Jeremie.


A Jacmel (costa Sud-Est) e nel circondario delle frazioni costiere: Meyer, Cyvadier, Raimond Les Bais, Cayes Jacmel, Timoullage, Kabic, Tesser, fino a Marigot (verso il confine, dove il conto dei morti è salito a 35) sono quasi un centinaio i decessi, tra cui una ragazza di 14 anni e alcuni bambini; circa trecento i ricoveri nei Centri trattamento colera (Ctc). Il problema è che molti casi non vengono denunciati e i morti sono seppelliti privatamente. Fonti non ufficiali (ma attendibili) e testimonianze raccolte in ambienti medici, proiettano (senza falso allarmismo) verso il tetto potenziale di un milione di portatori sani in tutta la nazione.

«Stare attentissimi a tutto quello che si ingerisce. Toccare meno cose possibile e lavarsi sempre accuratamente le mani; disinfettare tutti gli ambienti a contatto con bambini e anziani. Evitare luoghi affollati. Non c’è altra prevenzione» dice lo stimato dottor Bertrand, in un piccolo ambulatorio al centro storico terremotato di Jacmel, dopo aver terminato di misurarmi la pressione ed eseguito un rapido elettrocardiogramma. «La gente - racconta Bertrand - muore per disidratazione, complicazioni cardiache, renali e respiratorie, perché non arriva a tempo in terapia, perché per tutta una serie di implicazioni anche religiose non viene portata subito ai ricoveri». Le scuole sono ancora aperte, ma le famiglie cominciano a diffidare dato l’aggravarsi della situazione e la notizia di un primo decesso in un istituto di Cap Lamandou. Proprio in queste ultime ore si sta decidendo quante e quali scuole verranno chiuse a Jacmel.

Le statistiche del 6 dicembre (probabilmente minimizzate, data l’impossibilità di effettuare controlli capillari a domicilio) riportavano 96 casi d’infezione e un solo decesso. Il Dr.Yves Gaston Deslouches, direttore responsabile di Salute pubblica del dipartimento Sud-Est, dove il tasso di mortalità (22,6%) risulta finora il più alto dopo Grand’Anse (58.1%), ha dichiarato che «tutte le entità sono mobilizzate per provvedere alla necessaria assistenza dei pazienti contagiati dal virus». Purtroppo permangono persino problemi di coordinamento nella distribuzione dei medicinali. Dopo il primo ed unico Ctc all’ospedale Sain Michel dove opera da mesi Medici senza frontiere (Msf), in accordo con le autorità locali si è pensato di allestirne un secondo, con 200 posti letto disponibili, presso La Saline, una località dei sobborghi di Jacmel presuntamete isolata. La decisione non ha incontrato affatto i favori dei residenti e di alcuni membri dell’Associazione Sympathie en action pour la culture (Ajachs) che, dopo essersi riuniti in assemblea sabato scorso, hanno inscenato una manifestazione di protesta contro il benemerito già citato sindaco Edo Zenny e si sono organizzati per boicottare l’operazione, che potrebbe minacciare l’area adiacente al Collège Notre Dame du Perpétuel Secours, l’unica scuola secondaria in La Saline.

«Non abbiamo acqua né corrente elettrica, in più ci portate anche il colera» gridavano i dimostranti. Natale è alle porte e il giro di boa del 12 gennaio 2011 è vicinissimo; a un anno dalla prima fatale scossa sismica il bilancio nell’Isola delle Ong è terrificante: 300mila le vittime del terremoto, a cui dobbiamo aggiungerne altre tremila dell’emergenza colera, oltre ai circa 300mila casi di ricovero già accertati, senza contare che alcuni dei pazienti malati di colera sono anche affetti da tubercolosi, malaria, tifo; 60mila circa il conto degli orfani. Il ciclone Thomas è passato quasi inosservato, pur provocando un’altra decina di vittime e svariati danni, ma di fatto ha dato una spinta decisiva all’evacuazione di alcune tendopoli a rischio. I disordini a Port De Paix, a Saint Marc e a Cap Haitien, teatro di scontri tra la popolazione haitiana e i Caschi Blu dell’Onu e le manifestazioni dei giorni scorsi nella capitale e in molte province, hanno confermato un malcontento stratificato nella popolazione e una situazione ancora conflittuale con la Minustah, degenerata in un clima di “caccia alle streghe”, subito dopo il “giallo” del contingente nepalese in Artibonite.

Gli haitiani però, nonostante il desord, non gettano la spugna e sopravvivono con tenacia, nelle tendopoli dentro e intorno alla capitale. Il 10 per cento dell’intera popolazione è senza tetto, un altro 10 per cento potrebbe essere portatore sano del temibile virus, che funesterà e rallenterà ancora per mesi l’intero processo di ricostruzione, già in abbondante ritardo. Paura della microcriminalità, scontri armati tra fazioni politiche, disagi d’ogni tipo, montagne d’immondizia, scorie di carbone e detriti ammassati ai bordi delle periferie, non arrestano il commercio febbrile. Si continua a friggere per strada e a vendere maiale, banane e piccantissimi spiedini di capretto; a tracannare litri di birra Prestige e bevande energetiche che tolgono la fame, come la Toro (locale Red Bull), la Ciclone e la Ragaman (a base di ginseng). Si continuano ad aprire nuovi contratti di linee Digicell (tra gli sponsor ufficiali della ricostruzione) e a ricaricare telefonini ad ogni angolo di strada, a spostarsi in tap-tap e in mototaxi a giocare a football in ogni fazzoletto di terra disponibile.

Quasi tutte le ragazze possiedono cellulari-totem-Nokia con torcia incorporata; si spacciano smart phones a prezzi stracciati, I-Pods, televisori al plasma, play station e parabole satellitari; “secolate” di tecnologia digitale, confluite in mani primitive e infantili, illuminano la buia notte vodoo, nel flusso bipolare e sincretico dell’Isola lacerata, dove sacro e profano si rimescolano all’infinito, dove bellezza e disperazione possono miracolosamente coesistere. Haiti comunque resiste, oltre le banalità dei media, in ginocchio (perché si prega molto) e a testa alta, nella sua identità multipla e un po’ schizzata di laboratorio dei Narcos e delle Ong d’ispirazione religiosa (che seminano bibbie dappertutto), del circo mediatico-adottivo un po’ distratto (ma attento…) delle celebrities, testimonials della solidarietà internazionale sempre più disorientata, che ha visto inabissarsi in pochi mesi decine di milioni di dollari e tonnellate di aiuti in materie prime. L’appello lanciato nei giorni scorsi dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, per la raccolta fondi destinati a fermare il colera, rivelava come la richiesta di 164 milioni di dollari, formulata il mese scorso di fronte all’Assemblea Generale, non sia stata finanziata che per il 20 per cento grazie alle donazioni internazionali. «Vi chiedo con urgenza di contribuire a finanziare l’appello interamente», ha affermato il Segretario, che ha definito la cifra «prudente», ma sicuramente destinata a salire nei prossimi mesi.

Il “giallo” di Mirebalais era stato ampiamente illustrato nelle sue dinamiche più di un mese fa dal quotidiano Le Nouvelliste, che titolava alla fine di ottobre in prima pagina (taglio basso con foto illustrativa del fiume Artibonite): Epidemié de Cholera: “Une maladie importée, la Minustah clame son innocence” (Colera, una malattia importata, la Minustah dichiara le sua innocenza). Ora, a distanza di quasi due mesi la stampa internazionale e soprattutto italiana ancora ricama, a scoppio ritardato, sugli “untori” e non approfondisce la questione nei dettagli, ripetendo notizie datate e imprecise. Per dovere di cronaca ricordiamo che il quotidiano di Haiti sosteneva l’ipotesi di un contingente nepalese della Minustah, giunto in quell’area appena dieci giorni prima dell’esplosione dei primi focolai epidemici. Sembra, da testimonianze raccolte il loco, che alcune salme di soldati deceduti in seguito al contagio siano state rimpatriate segretamente, in ore notturne per non dare nell’occhio. Ma lo scandalo è scoppiato lo stesso. Il portavoce della missione Vincenzo Pugliese difendeva le posizioni dei Caschi Blu, dichiarando che le sette fosse settiche a circuito chiuso, presso la base militare di Meille, erano state costruite scrupolosamente a norma Epa (Agence de Protection de l’Environnement). è rimasta ancora molto ambigua la posizione della Samco, la compagnia incaricata di svuotare settimanalmente (con quattro camion) le sette fosse sospette, trasferendo i liquami in una discarica autorizzata dal comune di Mirebalais, ubicata però ad appena 300 metri dalle rive del fiume Artibonite, fatalmente contaminato su ambo le sponde. Numerosi tentativi di contattare anche telefonicamente i responsabili della Samco sono andati a vuoto.

Da Port Au Prince, corre il tam-tam telefonico: Radio Vodoo-Bemba dice che in tutti i supermercati sono spariti coltelli e machete, che in K e P (tra Delmas e la 43ma) lanciano pietre. Le autorità canadesi e lo stesso presidente uscente René Preval vorrebbero far ripetere i conteggi elettorali e la situazione in capitale è abbastanza confusa. Gli haitiani vorrebbero cambiare la loro storia, ma non sembrano disposti a cambiare il loro modo “indisciplinato” e spesso violento di far politica, troppo condizionati forse dalle interferenze esterne e dalla frammentazione partitica del potere interno (68 partiti non saranno troppi?). Tutti fattori concomitanti, che rallentano fatalmente le decisioni di un governo vacante e traballante, dove è sempre mancata una vera opposizione. L’Onu e gli Usa hanno fatto grosse pressioni perché si realizzassero queste elezioni, già rinviate a febbraio scorso.

Per il bisogno urgente di un interlocutore ufficiale che possa garantire stabilità nel gestire i fondi della ricostruzione, senza tenere conto dell’opinione di chi riteneva che il Paese reale «non fosse ancora pronto» per tale evento. Pare che l’agenzia di cooperazione nordamericana, Usaid, abbia contribuito con 14 milioni di dollari al finanziamento elettorale, suscitando ulteriori dubbi nella popolazione circa la sua imparzialità. La giornata di martedì 30 si era conclusa con un grande corteo lungo le strade di Port Au Prince, guidato dal candidato Michel Martelly e dal cantante-attivista Wyclef Jean, chiedendo proprio una ripetizione delle votazioni. Il 29 novembre scorso la Cep, il Consiglio elettorale provvisorio, dichiarava valide le elezioni, denunciando gravi irregolarità solo nel tre per cento dei seggi e annunciando la diffusione dei risultati definitivi per oggi, mentre già ci si prepara per il ballottaggio del 16 gennaio prossimo. Già annullati i voti di 56 seggi, su 1.500. L’Onu e l’ambasciata Usa ad Haiti invitano alla calma mentre molti dei candidati aizzano i propri sostenitori a scendere in piazza per manifestare il dissenso. Non ultimi i rappresentanti delle Ong, si stanno dividendo tra chi sostiene il riconoscimento delle «elezioni farsa» (come le definisce la stampa italiana) e chi, come Mark Weisbrot, direttore del Center for Economic and Policy Research, ritiene che «la comunità internazionale dovrebbe respingere queste elezioni e affermare sostegno alle istituzioni democratiche ad Haiti. Altrimenti, Haiti potrebbe essere lasciata con un governo largamente considerato come illegittimo».

Il “Morn Karate”, la strada di montagna che collega Jacmel con Leogane e Port Au Prince, pare sia stata interrotta da alcuni blocchi di manifestanti. Non ho modo di verificare personalmente. Eppure, nella quiete rurale e marina dei piccoli villaggi della costa Sud Est, dove la natura è dominante, diventa più difficile percepire la pressione, il pericolo del contagio, la tensione del desord politico incombente, i regolamenti di conti e le faide locali consumate nell’ombra. Comunque due giorni fa le strade erano bloccate, la corrente è stata tolta alle 9 di mattina, il mare una tavola deserta, una calma piatta inquietante; la sensazione che a poca distanza stia per succedere qualcosa è palpabile. E infatti dopo poche ore arriva la notizia di un incendio doloso appiccato al Tribunale di Jacmel e alcuni tafferugli e sassaiole in corso sulla piazza del mercato. Vicino al piccolo aereoporto di Jacmel, dove ormai non atterra quasi più nessuno, c’è un altro campo profughi, che accoglie oltre un migliaio di rifugiati parcheggiati in tenda, come all’ex stadio del Parc Pinchinat e sulla piazza del Comune. In tutto quasi cinquemila, sono fermi lì dal febbraio scorso e non solo loro.

Non c’è soluzione, né prevenzione, né redenzione immediata per risanare le piaghe di Haiti; solo perseverare, attendere giustizia e nuove case, riflettere sul passato recente, pregare per chi ne sente il bisogno. L’imperativo è ricostruire mattone per mattone, tenere sotto controllo la corruzione, garantire che gli aiuti giungano a destinazione; compiere ciascuno la propria missione, con umiltà e cognizione di causa, sapendo che ritrovarsi al cospetto della morte in Haiti fa parte della consapevolezza quotidiana, del system of survival collettivo, e che non esiste una meta ideale, ma che la meta è il cammino stesso. La domanda si ripete a livello esponenziale: where is the money? (dove sono finiti tutti i soldi?). Radio Giné trasmette no-stop tamburi e cori rituali, cover francesi di “canzoni sotto l’albero”, dibattiti con filo diretto e avvertenze alla popolazione, tutt’altro che impaurita e “massa acritica”, piuttosto consapevole della propria rabbia e delle proprie tragedie. Nel bazar infinito di Petionville, sfilano i mototaxi svicolando tra Jeeps, mezzi militari e tap-tap nell’ingorgo del tramonto; scintillano le entrate sorvegliate dei super-food-markets, sfavillano le lampade flash a manovella e i lumini a gas dello stuolo di marchands accovacciate in sequenze progressive ai lati delle strade di massimo scorrimento. Restano lì, nella penombra e non mollano la postazione, mentre il laborioso brulichio commerciale non diminuisce, le tre città (Port Au Prince) si rimescolano ancora per qualche ora, prima del coprifuoco serale.

Buon Natale e massimo rispetto, per quell’Haiti umile ed eroica, globalizzata in maniera inconsulta, che reagisce all’impatto delle sciagure anche stando ferma e non si arrende mai; malata, straziata, sofferente, stregata e devota, denigrata e compatita dal resto del mondo cosiddetto “civile”. I bambini haitiani più privilegiati riceveranno in dono molti giocattoli preziosi e tecnologici dai parenti della diaspora; quelli solamente fortunati avranno forse come unica strenna natalizia, la certezza intuitiva di essere sopravvissuti, di poter essere ancora protetti, nel tempo, insieme a tante altre anime sole, ma non del tutto abbandonate, sostenute nei bisogni primari, illuminate dalla fede nei propri santi e loas, e da milioni di candeline colorate intermittenti made in China... Brandelli di speranza in vendita a pochi gourdes in tutti i mercatini all’aperto, dove anche in tempo di colera, a Sud di nessun Sud…, la uniòn fait la force.

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