giovedì 20 maggio 2010

Gaza: esiste il Piano-Fame

di Maurizio Blondet

Quante calorie al giorno Israele consente di far giungere a Gaza per mantenere in vita il milione e mezzo di abitanti prigionieri? Saranno mille, o 1.500? Non sappiamo. Sappiamo che esiste un documento del governo israeliano, intitolato «Food Consumpion in Gaza Strip – Red Lines», che stabilisce la somministrazione minima di calorie per impedire che la gente di Gaza cominci a morire in massa, creando un danno d’immagine allo Stato ebraico.


Ma il documento è segreto. Le autorità sioniste hanno rifiutato di renderlo pubblico, come ha ingiunto un tribunale israeliano, con il motivo che la sua divulgazione «danneggia la sicurezza nazionale e pregiudica le relazioni con l’estero». (Details of Gaza blockade revealed in court case)

E’ un parziale successo di «Gisha», un benemerito gruppo israeliano per i diritti umani, che ha citato le «autorità» in giudizio, nello sforzo di obbligare il regime a rivelare i criteri e il piano per il filtraggio delle importazioni permesse, e di quelle vietate, da far giungere alla popolazione di Gaza.

Dopo dodici mesi di attesa e di insistenze – le autorità hanno all’inizio negato l’esistenza stessa di questi documenti –, lo Stato ha fornito una risposta scritta al tribunale, che, dice la BBC, «getta un po’ di luce» sul progetto e il senso del blocco di Gaza, che dura da tre anni. In carattere neretto, il documento indica il motivo dell’assedio così:

«La limitazione al trasferimento di merci è un pilastro fondamentale fra i mezzi a disposizione dello Stato d’Israele nel conflitto armato contro Hamas».

Già questa sola ammissione basterebbe ad incriminare le «autorità» del crimine di guerra chiamato «punizione collettiva», ossia la punizione di un’intera popolazione per le azioni dei suoi capi politici: un delitto contro l’umanità, secondo il diritto di Norimberga.

Come si legge nel Rapporto Goldstone, «Il governo israeliano ha il diritto di difendersi. Ciò però non giustifica in alcun modo una politica di punizione collettiva di un popolo sotto occupazione, attraverso la distruzione della possibilità di vivere una vita dignitosa».

Nel testo fornito al tribunale, le autorità israeliane confermano l’esistenza di quattro documenti che definiscono come deve funzionare il blocco. Secondo le loro stesse ammissioni, quei documenti riguardano:

1) Come rispondono alle richieste d’importazione che vengono da commercianti palestinesi di Gaza.
2) Come controllano le penurie a Gaza.
3) Come formano le liste dei beni autorizzati ad entrare a Gaza.
4) Il documento intitolato «Consumo alimentare nella striscia di Gaza – Linee Rosse», che appunto stabilisce la quantità minima di calorie per non far morire la gente di Gaza.

Scrive l’organizzazione ebraica Gisha: «E’ un documento che secondo le autorità riporta il fabbisogno nutritivo minimo per la sussistenza dei residenti di Gaza. Apparentemente, questo documento contiene tabelle dettagliate del numero di grammi e di calorie che ad ogni residente dev’essere permesso di consumare, specificato in base al sesso e all’età, evidentemente per stabilire un livello minimo delle restrizioni».

Questi documenti però non vengono divulgati perchè «usati per lavoro di pianificazione interno», la cui diffusione può danneggiare «le relazioni con l’estero».

Come? Dimostrando che Israele gestisce effettivamente Gaza come un lager.
Anche il poco che è stato ammesso basta a capire come la cosa funzioni: le organizzazioni internazionali di soccorso (ONU, UNHCR, organizzazioni non-governative, umanitarie e sanitarie) devono fornire alle autorità israeliane la lista dei beni che intendono comprare e importare nella zona assediata. Le autorità selezionano i beni autorizzati e quelli vietati sulla base «del rischio alla sicurezza nazionale» che tali beni rappresntano per Israele.

Per esempio, ammettono l’importazione del Tahini (il dolce di pasta di sesamo), ma vietano la marmellata, chiaro pericolo per la sicurezza nazionale. Consentono il caffè e il tè, ma vietano il cioccolato, che minaccia l’esistenza stessa dello Stato d’Israele. Vietatissimi i «materiali da costruzione» e la legna, ma anche i giocattoli in plastica.

«Non m’intendo di sicurezza», sbotta Sari Bashi, direttrice di Gisha, «ma non capisco come impedire ai bambini di avere dei giocattoli minacci la sicurezza nazionale. E perchè è permessa l’importazione di cannella, ma non del coriandolo (l’essenza diffusamente usata nei cibi arabi)? In cosa il coriandolo è più pericoloso? Se c’è una logica dietro queste decisioni, i militari ci dicano qual è».

La logica è probabilmente spiegata nel documento numero 2, non reso pubblico: come «gestire» le varie penurie nella Striscia assediata, facendo in modo che un giorno manchi una merce, e un giorno un’altra. Le liste dei beni permessi e di quelli bloccati, del resto, cambiano continuamente e in modo apparentemente arbitrario.

E’ una logica sadica: niente dà ad una popolazione perseguitata un maggior senso di impotenza del fatto che farla sentire dipendente da un potere inaccessibile, arbitrario e imprevedibile, anche per le più piccole necessità della vita quotidiana. E’ la pratica per spezzare la volontà e costringerle alla sottomissione.

Nel documento fornito ai giudici, i comandi israeliani danno una breve lista delle importazioni che hanno permesso nelle ultime settimane: per esempio, da marzo hanno consentito l’entrata a Gaza di scarpe, «ma Israele non ha mai divulgato una lista dei beni vietati, asserendo che autorizza le richieste caso per caso», scrive la BBC.

«Non è chiaro come mai Israele abbia scelto di investire tante risorse nello sforzo di nascondere le informazioni», dice l’avvocato Tamar Feldman, il legale del Gisha. E rivela: il piano delle restrizioni a Gaza è stato articolato in modo informale come «No allo sviluppo, no alla prosperità, non alla crisi umanitaria», che significa: permettere la sopravvivenza, ma niente di più. (No Development, No Prosperity, No Humanitarian Crisis)

«Ciò significa che i milioni di dollari promessi dal governo americano dopo l’operazione del dicembre 2008 / gennaio 2009 (Piombo Fuso) e i 4,5 miliardi promessi dalla comunità internazionale per la ricostruzione, non possono essere spesi. Progetti umanitari designati per ricostruire le case non possono essere realizzati, e almeno 20 mila persone sono ancora attendati, nell’impossibilità di riattare le loro abitazioni.


Perchè, continua Gisha, «i comandi rifiutano di esibire il documento chiamato “Linea Rossa” che contiene i calcoli dei bisogno calorici della popolazione di Gaza? La nostra organizzazione è allarmata ritenendo che l’evidente pratica dei militari di determinare lo standard minimo sia un modo per ridurre deliberatamente il milione e mezzo di residenti a Gaza».by Maurizio Blondet

FONTE: http://www.effedieffe.com/component/option,com_myblog/show,Gaza-esiste-il-Piano-Fame-.html/Itemid,0/

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