giovedì 14 ottobre 2010

Negli oceani l’«errore» diventa orrore


Ricorderete tutti, o quasi, lo spot televisivo che presentava un trancio di tonno talmente tenero da tagliarsi con un grissino.

Al di là della validità commerciale del messaggio – alcuni sostenevano infatti che non si trattasse di autentico tonno – colpisce la leggerezza d’animo con cui lo stesso messaggio veniva divulgato. Quante persone, col pallino del piatto “sano”, avranno aperto “innocentemente” una scatoletta di tonno aggiungendola alla propria insalata? O come rinunciare ai gamberetti durante un aperitivo o al sempre più popolare sushi? E ancora, pare davvero irresponsabile non dare ascolto i medici quando ci dicono che “il pesce fa bene”.
In fondo son pesci: non urlando, non soffrono. Un bel cortocircuito dell’empatia.

E’ possibile che più di qualcuno, guardando il famigerato spot sopracitato, abbia pensato che quello non fosse cibo ma che fosse ciò che rimaneva di un povero pesce certamente contrario alla propria uccisione e parcellizzazione. Quando si è venuto a sapere che la pesca dei tonni causava la morte dei delfini, alcuni produttori, per tranquillizzare i propri consumatori, sono corsi ai ripari sfoggiando la propria sensibilità e il proprio senso di responsabilità, annunciando che la pesca del tonno non avrebbe più causato l’uccisione dei delfini grazie all’adesione al Programma Internazionale per la Conservazione dei Delfini che prescrive misure volte a limitare la mortalità accidentale dei delfini. Una bella garanzia! Conservazione dei delfini nei mari, conservazione dei tonni in frigorifero.
Pare assurdo vantarsi di difendere i delfini mentre si svolge un’attività comunque dannosa e completamente inutile. Perché svolgerla? Ricorda molto la tendenza a salvare donne e bambini quando si parla di guerra. Si potrebbero salvare anche gli uomini forse evitando di fare la guerra. Si potrebbero salvare tutti gli altri pesci e animali marini evitando la pesca.
Ciò che non viene detto è molto altro: le vittime di questa guerra non sono “solo” tonni, delfini, gamberetti. Esistono centinaia di specie, miliardi di esemplari non edibili che, durante la pesca di animali edibili, finiscono nelle infernali reti dei pescherecci, nelle fauci dei colossali produttori di pesce, nelle chilometriche scope oceaniche guidate da sonar e satelliti tecnologicamente (ma solo tecnologicamente) avanzati. I sistemi di pesca sono diabolici e i pesci non hanno scampo. Il numero dei pescatori è drasticamente diminuito nell’ultimo quarto di secolo per lasciare spazio a pescherecci che hanno tutta l’aria di inesorabili navi da guerra.

 
Le reti vengono dipanate per centinaia di chilometri e, quando vengono issate, contengono tonnellate di morte. Gli animali uccisi “per errore” sono le cosiddette prede accessorie ossia quelle prede che finiscono inevitabilmente nelle reti e che vengono ributtate in mare, morte o agonizzanti, perché non di interesse alimentare. Vorrei evitare di dilungarmi ma ritengo che sia necessario citare alcune delle centoquarantacinque specie che vengono uccise durante la pesca, per citare uno degli innumerevoli esempi, dei tonni: mante, diavoli di mare, razze maculate, squali dal muso lungo, pesci martello, spinaroli, murene, pesci pilota, tirsiti, cavallucci marini, cernie, pesci serra, ombrine, ricciole, pagri, barracuda, pesci palla, tartarughe, albatri, gabbiani, mugnaiacci, berte dell’Atlantico, balenottere, delfini (nonostante il Programma Internazionale per la Conservazione dei Delfini), megattere, orche, focene, capodogli, stenelle, tursiopi e moltissime altre. Specie di cui la maggior parte di noi non conosce neppure il nome, specie mai sentite nominare prima d’ora. Queste specie vengono catturate per “errore” durante un’attività completamente sbagliata e dannosa: un vero orrore.
Se le scatolette dovessero contenere tutti i caduti di questa enorme guerra silenziosa dovrebbero essere gigantesche. Se dovessero recare l’indicazione di quanti animali sono morti, forse i consumatori comincerebbero a fare qualche riflessione e a ravvedersi pensando che non uccidono “solo” una volta ma più e più volte. Un annuncio sopra il banco frigo che reciti: per questo chilo di gamberetti sono stati uccisi e ributtati in acqua altri ventiquattro chili di altri animali marini. Se così dovesse essere, le borse della spese peserebbero quintali.
La pesca è un’attività umana devastante e in pochi lo sanno. L’oceano è enorme, le risorse sono inesauribili: questo è il pensiero irresponsabile che alberga nella maggior parte delle persone. E, cosa ancora più vergognosa è che questa attività sia sussidiata. Molti paesi finanziano questa indecenza, sostengono economicamente questa sistematica uccisione di massa e questo scellerato sfruttamento degli oceani. Tutti tacciono e ordinano pesce per sentirsi leggeri. Il fatto è che il ritmo di pesca attuale porterà all’estinzione della maggior parte delle specie e a danni irreversibili nel giro di una cinquantina d’anni. Ma come si fa a rinunciare all’insalata col tonno? Questo sfizio – troppo spesso scambiato per necessità – vale ben lo sterminio degli oceani!
I produttori mettono a tacere il vociare di malcontento assicurando che mentre pescano non ammazzano delfini. Non è l’uomo a decidere qual è l’animale la cui vita va rispettata. Non possiamo decidere a chi dare valore e a chi no, magari in funzione della nostra bella faccia o della nostra pancia. E non possiamo star muti come i pesci. Loro lo fanno per natura, noi per malafede.
Francesca Fugazzi

Nota: le informazioni sulla specie delle prede accessorie sono tratte da “Se niente importa, perché mangiamo animali” di Jonathan Safran Foer edito da Guanda, Parma, 2010, pagg. 57-58

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