sabato 7 maggio 2011

Verso una cultura della sostenibilità - Intervista a David Holmgren.

fonte: Consapevole.it 

La permacultura è molto più di un semplice sistema che permette una perfetta e armonica integrazione dell’uomo e del proprio ambiente all’interno dell’ecosistema, nel pieno rispetto di ogni suo elemento: è una filosofia di vita, è la consapevole cultura dell’essere umano come parte della Terra. La permacultura è la nuova prospettiva attraverso cui guardare al nostro futuro sommarietto


Insieme a Bill Millison, David Holmgren è considerato il co-fondatore della permacultura, la scienza che propone l’uso consapevole del territorio in cui viviamo, contribuendo a creare un ecosistema equilibrato, riducendo al minimo l’impatto dell’uomo sull’ambiente e allo stesso tempo producendo risorse alimentari sufficienti. Questo nuovo modo di pensare ci può trainare verso l’uscita di crisi energetiche, perché permette di prendersi la propria responsabilità come individui e come parte di una collettività che comprende tutti gli esseri viventi.
In attesa dell’uscita del suo libro Permacultura. Principi e percorsi verso la sostenibilità, abbiamo incontrato l’autore, David Holmgren.

David, anzitutto vorrei sapere qual è la tua definizione di permacultura?
La permacultura è essenzialmente una progettazione sistemica per un utilizzo della terra e stili di vita che risultino sostenibili. Quindi non si risolve esclusivamente in una produzione di cibo naturale senza utilizzo di prodotti di sintesi chimica, ma comprende piuttosto il modo in cui ci relazioniamo al territorio ed un utilizzo sostenibile delle risorse naturali.

In un certo senso rappresenta anche un modo per ridefininire la società e la nostra cultura?
La permacultura fornisce una differente visione dello stare al mondo e in questo senso può offrire un contributo importante per risolvere i drammi con i quali l'umanità si sta confrontando: quello ambientale, della deforestazione, dell'inquinamento del suolo, dell'aria e delle acque, del picco del petrolio... In ultima analisi, sì, è anche un mio modo per ridefinire la società.

Come è iniziata la permacultura?
Sia io che Bill Mollison fummo molto influenzati dal report I limiti della crescita che il Club di Roma pubblicò nel 1972. Abbiamo lavorato fianco a fianco per qualche anno e nel 1978 abbiamo pubblicato Permaculture One che rappresenta il testo base della permacultura. In ogni caso il nostro contributo fu diverso. Lui era un insegnante e si impegnò da subito per diffondere la permacultura, mentre io ero molto giovane e ancora studente. Siamo cofondatori della pemacultura, ma Mollison è il padre del movimento della permacultura.

Però ho letto da qualche parte che forse la tua vita è stata più coerente con i principi della  permacultura rispetto a quella di Mollison. È così?
Forse, ma onestamente non so se c'è del merito da parte mia in questo. Semplicemente, essendo all'epoca poco più che ventenne, mi sembrava giusto sperimentare, mettere in pratica tutta quella teoria che avevamo formulato. Per cui questo è ciò che ho fatto per molti anni.

La tua è stata una scelta intellettualmente molto onesta...
Non avrei potuto fare diversamente. Così è nata l'opinione che Mollison era quello con le idee, il pensatore, e io il ragazzo semplice e concreto. Non è così, perché la permacultura è nata come lavoro concettuale comune. Comunque quegli anni a “sporcarmi le mani” sul campo mi sono serviti, perché mi hanno dato una disciplina che ritengo molto importante. Sono stati formativi nell'accezione più completa del termine.

Con il raggiungimento del picco del petrolio, e in realtà di tutte le risorse (gas naturale, carbone, uranio ecc.) il mondo sta andando incontro a un’inevitabile discesa energetica. Quale può essere il ruolo della permacultura in questo nuovo scenario?
Credo che la permacultura abbia un enorme potenziale in questo nuovo scenario perché essendo nata dalla consapevolezza della limitatezza delle risorse, anticipa questa situazione. Come vivere con meno risorse? Questa è la domanda alla base della permacultura. In realtà, non abbiamo anticipato nulla poiché negli anni '70 era una consapevolezza piuttosto diffusa, ma poi i due decenni di fine secolo sono stati vissuti in uno stato di sonnambulismo totale. Quindi, oggi ci ritroviamo con un problema vecchio ormai di 40 anni che si ripresenta però in maniera più drammatica.
La discesa della disponibilità energetica comporterà enormi cambiamenti sociali e culturali su vasta scala e forse siamo più nelle mani di Dio che non nelle nostre (sorride). Però abbiamo la capacità di capire come funzionano certi sistemi e questo può aiutarci. Inoltre la permacultura si propone di mettere energia nel creare il mondo che desideriamo piuttosto che sprecare energia per combattere il mondo che non vogliamo. La permacultura si propone di costruire un senso “naturale” di abbondanza cercando di lavorare in sintonia con la natura.

La permacultura ha quindi un approccio olistico che non è quello tipico della nostra società...
Ti riferisci per caso alla credenza comune che la scienza e la ricerca risolveranno i nostri problemi?

È così.
Rispondo partendo dalla fine della tua domanda. Da due secoli in qua siamo abituati a pensare che per ogni problema c'è una soluzione senza considerare tutti gli altri aspetti che fanno parte dell'esistenza assieme a quel problema specifico. Il fatto è che il rimedio, che ovviamente non è sbagliato in sé, viene proposto e soprattutto accettato, perché ci permette di non cambiare la nostra vita. La gente mette un pannello sul tetto perché pensa di non inquinare, quindi tira fuori qualche migliaio di euro e si mette la coscienza a posto. Ma non è così. Devi considerare tutti gli aspetti per arrivare al pannello sul tetto. Il fatto è che ogni soluzione si propone di mandare avanti il sistema consumistico e industriale in maniera più efficiente. Bisognerebbe rifarsi al concetto di emergy che è uno dei concetti base della permacultura.

Ce lo puoi spiegare?
Il concetto di emergy – acronimo di embodied energy – venne formulato da Howard Odum (l’ecologista americano fra i primi ad avere studiato il flusso energetico nell’ecosistema, N.d.R., al quale tra l'altro ho dedicato il mio libro). Emergy rappresenta un’unità di misura dell'energia che prende in considerazione non solo l'energia necessaria per produrre qualcosa, ma anche tutte le risorse naturali ed energetiche impiegate per arrivare al prodotto finito.

Puoi farci un esempio?
Se noi vogliamo utilizzare i pannelli solari non possiamo considerare solamente l'energia necessaria per costruire i pannelli solari...

Generalmente non si fa neppure quello. Si considera semplicemente che il pannello solare in sé non inquina.
Invece, applicando il concetto di emergy si valutano anche le materie prime necessarie, la loro estrazione, la lavorazione, il trasporto, la manutenzione fino ad arrivare alla vita degli ingegneri che li hanno progettati i quali costano moltissimo in termini energetici. Pensa solo che hanno studiato fino ai trent'anni, con un enorme dispendio energetico a carico della società (in realtà della natura). Oppure, l'ingegnere che ha progettato i pannelli solari guadagna (e presumibimente spende, e quindi consuma) molto di più, che so, di una persona che pulisce i pavimenti. Ecco, quello è un segno di embodied energy. Quindi emergy ha a che fare in ultima istanza con il consumo di risorse e di energia. In generale il punto è che qualunque “novità”, che magari si presume ci faccia risparmiare energia, deve necessariamente relazionarsi con altri sistemi che sono nel loro insieme sempre più complessi. Un ingegnere di cento anni fa non avrebbe potuto inventare i pannelli solari. Quindi bisogna considerare l'impatto dell'insieme e non solo della specifica cosa di interesse. Insomma, se da un lato si crede comunemente che le soluzioni, soprattutto quelle tecnologiche, possano risolverci i problemi, dall'altro dovremmo essere in grado di vedere il costo totale, in termini energetici e di risorse, che ha reso possibile arrivare a quelle soluzioni.

Mi fa piacere sentirtelo dire. Parlo di emergy da sempre senza saperlo...
(sorride) E' un sistema di calcolo energetico molto complesso che però ci fornisce linee guida di pensiero da seguire.

Cosa pensi di questo approcco specialistico proprio della nostra cultura? Noi vediamo il mondo a compartimenti stagni ma non l'insieme.
L'approccio riduzionista tipico della nostra cultura è quello che ha dominato la scienza negli ultimi tre secoli, e quindi a noi pare ovvio che sia l'unico possibile e giusto. Ma in realtà non è affatto l'unico e per quanto mi riguarda non è neppure giusto. Noi concepiamo il mondo come un'enorme macchina fatta di componenti che smontiamo per “aggiustare” e poi rimontiamo per far funzionare il sistema. Abbiamo inevitabilmente una visione limitata, che ci fa ragionare in termini di giusto o sbagliato, di positivo o negativo. Se percepiamo una cosa come positiva ne vogliamo sempre di più, se ci sembra negativa, vogliamo eliminarla. Ma non c'è nulla di positivo o negativo di per sé, dipende dal rapporto che la tal cosa ha con il tutto. La permacultura, partendo dall’osservazione della natura, supera questo approccio riduzionista e anche per questo è molto più vicina alla natura.

David, oggi i media parlano della crisi dell'economia e non di petrolio o cambiamenti climatici...
Bisogna capire che se siamo in recessione ciò è dovuto principalmente all'aumento del costo del petrolio che si era verificato nel 2008. È chiaro che ci sono altri fattori che hanno concorso alla situazione attuale, ma alla base di tutto c'è stato l'aumento del costo dell'energia. Questo è un segnale che nessuno vuole cogliere e la tal cosa è ovviamente molto frustrante da un lato ma inevitabile dall'altro. Politicamente, quella del picco del petrolio è una verità ancora più impronunciabile dei cambiamenti climatici.

Come pensi che la permacultura possa interagire con la politica? La permacultura ha un approccio bottom-up, dal basso verso l’alto, ben lontano da quello top-down, dall’alto verso il basso, della politica.
E infatti questo nostro modo di agire è stato oggetto di molte critiche. È vero che la permacultura lavora nel piccolo, generalmente nell'ambito della famiglia o della comunità di residenza, ma del resto i problemi che stiamo affrontando sono così complessi che se non se ne prende atto a livello piccolo, non si riesce ad affrontarli a livello grande. Sembra un paradosso ma non è così. Rifletti, se non riusciamo a cambiare il nostro piccolo mondo come puoi sperare di cambiare quello grande? Per cui se un cambio verrà nel grande, questo è perché a livello piccolo ci saranno le basi solide e pronte per il cambio. Il piccolo anticipa sempre il grande.

Come ti senti a pensare che la permacultura è alla base del concetto di Transition Towns che rappresenta il movimento che oggi come oggi suscita maggiori speranze?
Per me è motivo di grande orgoglio. Credo che sia un movimento molto concreto ed efficace che affonda le radici nella comunità. E Rob Hopkins, il fondatore, è un attivista che stimo molto.

Qual è stato il ruolo della permacultura a Cuba durante il Periodo Especial?
Devo dire sinceramente che c'è l'idea molto diffusa (promossa principalmente dal documentario Vivere senza petrolio. L’esperienza di Cuba) che la permacultura abbia “salvato” Cuba durante il Periodo Especial – il periodo degli anni Novanta in cui si registrò una pesante crisi energetica, con conseguente crisi alimentare e difficoltà a livello sociale che piegò l’intera isola [N.d.R.]. Per onestà bisogna dire che accanto ad essa c'è stato il lavoro di ricercatori universitari che già da anni portavano avanti studi per sviluppare metodi di agricoltura organica e lo sviluppo di biofertilizzanti e biopesticidi. Comunque, la permacultura ha aiutato i cubani che già da soli, senza conoscenza alcuna, si erano messi a coltivare ogni pezzo di terra libero dell’Havana. Era terra poverissima ma la gente era disperata per cui provava a coltivare di tutto, ovunque.
Certamente, l'aiuto dei permaculturisti australiani che si recarono a Cuba è stato efficace ed è un dato di fatto che da allora in quel paese ci sia una visione su come produrre cibo, sui trasporti, e sulla vita in generale, molto simile a quella della permacultura.

Quanto può essere di aiuto ai paesi occidentali l'esempio di Cuba?
Normalmente si tende a considerare Cuba come un povero paese rurale dall'economia sottosviluppata. In realtà Cuba aveva industrie e soprattutto l'agricoltura era moderna, meccanizzata e molto dipendente da fertilizzanti e pesticidi di sintesi. Questo significa che, pur essendo per tanti aspetti diversa dai paesi occidentali, le conseguenze del picco petrolifero potrebbero rivelarsi più simili di quanto non ci aspettiamo. A mio avviso, ci sono similitudini ma anche punti di forza e debolezze nei due sistemi. Ad esempio un punto di forza dei Paesi occidentali, anche se ci sono delle notevoli differenze all’interno degli stessi, potrebbe essere la nostra abitudine ad agire immediatamente, frutto di una mentalità individuale e liberista. Per contro, però, a Cuba si agisce come comunità e per solidarietà, che credo sia molto più importante.

La permacultura lavora con e non contro la natura. Perché regna sovrana l'idea che la natura sia competitiva e non cooperativa?
Direi che la struttura cooperativa è prevalente in natura, ma la natura ha talmente tante facce, tanti modelli, che ovviamente sono presenti anche modelli competitivi. La competizione è una parte vitale ed importante della natura ma non quella dominante. In realtà, dove ci sono molte risorse le specie competitive tendono a proliferare, dove ce ne sono meno, invece, si sviluppa una struttura più cooperativa e quindi stabile. Potrebbe essere quello che accadrà nel XXI secolo con l'esaurimento progressivo di tutte le più importanti risorse. Dopo un periodo di transizione che temo sarà molto violento, potrebbe esserci una relativa pace. La storia lo dice chiaramente. Società che hanno vissuto con meno risorse hanno avuto meno conflitti. Se ci sono poche risorse non vale neppure la pena fare guerre. Si usa più energia di quella che si ottiene.

Cosa puoi dirci del tuo libro Permacultura. Principi e percorsi verso la sostenibilità?
Il libro viene dal mio lavoro di insegnamento dei principi della permacultura, lavoro che ho portato avanti principalmente dagli anni '90. Ma non è un lavoro facile, perchè questa disciplina, partendo dallo studio della natura, è in continua evoluzione. Quando mi sono messo al lavoro sul libro, dopo poco mi sono reso conto che stava nascendo qualcosa che andava ben al di là dell'insegnamento dei principi della permacultura. Partendo da un modo di produrre cibo si è arrivati a un modo per ridisegnare l'intera società. Credo che il libro abbia il grande merito di aver rivitalizzato e ampliato il concetto stesso di permacultura.

Quali consigli ti senti di darci a livello personale e come la permacultura può aiutarci in tal senso?
Più che a livello individuale credo si debba ragionare in termini di comunità. A mio parere ci sono due paesi tra quelli industrializzati che possono darci dei possibili modelli: il Giappone e l'Italia. Entrambi, nonostante gli stili di vita consumistici e la forte urbanizzazione, mantengono diversi elementi tradizonali sia nell'utilizzo della terra che nei rapporti relazionali tra la popolazione. Possono essere elementi un po' annacquati ma appartengono alla vostra cultura. Quindi credo che in questi paesi il compito della permacultura sia soprattutto trovare elementi di unione con un modo antico di fare agricoltura e con gli aspetti relazionali che erano propri del mondo contadino tradizionale. I vecchi di oggi sono l’ultima generazione di quel mondo, e come tale rappresentano una memoria vivente. Per una cultura giovane come quella australiana invece credo sia più intelligente creare qualcosa di nuovo perché non c'è nulla da recuperare.

David, un'ultima domanda. Come vedi il mondo tra venti anni?
Credo che oggi siamo già dentro a una fase di cambiamenti estremamente caotica: siamo a un punto di svolta nella storia dell'umanità con la fine del globalismo e un ritorno forzato al localismo. Mi auguro che localismo significhi anche e sopratutto diversità culturale, che è qualcosa di fondamentale per affrontare le sfide imposte dal collasso dell'economia, dal picco del petrolio e dai cambiamenti climatici. Scordiamoci che ci sia una formula per affrontare queste sfide valida per ogni paese. Ogni paese o regione o città, svilupperà la sua personale “ricetta di emergenza”. 


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