 fonte: Consapevole.it
fonte: Consapevole.it La  permacultura è molto più di un semplice sistema che  permette una  perfetta e armonica integrazione dell’uomo e del proprio ambiente   all’interno dell’ecosistema, nel pieno rispetto di ogni suo elemento: è  una  filosofia di vita, è la consapevole cultura dell’essere umano come  parte della  Terra. La permacultura è la nuova prospettiva attraverso  cui guardare al nostro  futuro sommarietto
Insieme  a Bill Millison, David Holmgren è considerato il  co-fondatore della  permacultura, la scienza che propone l’uso consapevole del  territorio  in cui viviamo, contribuendo a creare un ecosistema equilibrato,   riducendo al minimo l’impatto dell’uomo sull’ambiente e allo stesso  tempo  producendo risorse alimentari sufficienti. Questo nuovo modo di  pensare ci può  trainare verso l’uscita di crisi energetiche, perché  permette di prendersi la  propria responsabilità come individui e come  parte di una collettività che  comprende tutti gli esseri viventi. 
In attesa dell’uscita del suo libro Permacultura.  Principi e percorsi verso la sostenibilità, abbiamo incontrato l’autore,  David Holmgren.
David, anzitutto vorrei sapere qual è la tua definizione di permacultura?
La  permacultura è essenzialmente una progettazione sistemica  per un  utilizzo della terra e stili di vita che risultino sostenibili. Quindi  non  si risolve esclusivamente in una produzione di cibo naturale senza  utilizzo di  prodotti di sintesi chimica, ma comprende piuttosto il modo  in cui ci  relazioniamo al territorio ed un utilizzo  sostenibile delle risorse naturali.
In un certo senso rappresenta anche un modo per ridefininire  la società e la nostra cultura? 
La  permacultura fornisce una differente visione dello stare  al mondo e in  questo senso può offrire un contributo importante per risolvere i   drammi con i quali l'umanità si sta confrontando: quello ambientale,  della  deforestazione, dell'inquinamento del suolo, dell'aria e delle  acque, del picco  del petrolio... In ultima analisi, sì, è anche un  mio modo per ridefinire la società. 
Come è iniziata la permacultura?
Sia io che Bill Mollison  fummo molto influenzati dal report I limiti  della crescita che il Club di Roma pubblicò nel 1972.  Abbiamo lavorato fianco a fianco per qualche anno e nel 1978 abbiamo pubblicato  Permaculture One  che rappresenta il testo base della permacultura. In ogni  caso il  nostro contributo fu diverso. Lui era un insegnante e si impegnò da   subito per diffondere la permacultura, mentre io ero molto giovane e  ancora  studente. Siamo cofondatori della pemacultura, ma Mollison è il  padre del  movimento della permacultura.
Però ho letto da qualche parte che forse la tua vita è stata  più coerente con i principi della   permacultura rispetto a quella di Mollison. È così?
Forse,  ma onestamente non so se c'è del merito da parte mia  in questo.  Semplicemente, essendo all'epoca poco più che ventenne, mi sembrava   giusto sperimentare, mettere in pratica tutta quella teoria che avevamo   formulato. Per cui questo è ciò che ho fatto per  molti anni. 
La tua è stata una scelta intellettualmente molto onesta...
Non  avrei potuto fare diversamente. Così è nata l'opinione  che Mollison  era quello con le idee, il pensatore, e io il ragazzo semplice e   concreto. Non è così, perché la  permacultura è nata come  lavoro concettuale comune. Comunque quegli  anni a “sporcarmi le mani” sul campo  mi sono serviti, perché mi hanno  dato una disciplina che ritengo molto  importante. Sono stati formativi  nell'accezione più completa del termine.
Con  il raggiungimento del picco del petrolio, e in realtà di  tutte le  risorse (gas naturale, carbone, uranio ecc.) il mondo sta andando   incontro a un’inevitabile discesa energetica. Quale  può essere il ruolo della permacultura in questo nuovo scenario?
Credo che la permacultura   abbia un enorme potenziale in questo nuovo scenario perché essendo  nata dalla  consapevolezza della limitatezza delle risorse, anticipa  questa situazione.  Come vivere con meno risorse? Questa è la domanda  alla base della permacultura.  In realtà, non abbiamo anticipato nulla poiché  negli anni '70 era una consapevolezza piuttosto diffusa, ma poi i due decenni di fine secolo sono stati vissuti in  uno stato di sonnambulismo totale. Quindi, oggi ci  ritroviamo con un problema vecchio ormai di 40 anni che si ripresenta però in  maniera più drammatica.
La  discesa della disponibilità energetica comporterà enormi  cambiamenti  sociali e culturali su vasta scala e forse siamo più nelle mani di  Dio  che non nelle nostre (sorride). Però abbiamo la capacità di capire come   funzionano certi sistemi e questo può aiutarci. Inoltre   la permacultura si propone di mettere energia nel creare il mondo che   desideriamo piuttosto che sprecare energia per combattere il mondo che  non  vogliamo. La permacultura si propone di costruire un senso  “naturale” di  abbondanza cercando di lavorare in sintonia con  la natura.
La permacultura ha quindi un approccio olistico che non è  quello tipico della nostra società...
Ti riferisci per caso alla credenza comune che la scienza e  la ricerca risolveranno i nostri problemi?
È così.
Rispondo partendo dalla fine della tua domanda. Da due  secoli in qua siamo abituati a pensare che per ogni problema c'è  una soluzione senza considerare tutti gli altri aspetti  che fanno  parte dell'esistenza assieme a quel problema specifico. Il fatto è  che  il rimedio, che ovviamente non è sbagliato in sé, viene proposto e   soprattutto accettato, perché ci permette di non cambiare la nostra  vita. La  gente mette un pannello sul tetto perché pensa di non  inquinare, quindi tira  fuori qualche migliaio di euro  e si mette la  coscienza a posto. Ma non è così. Devi considerare tutti  gli aspetti per  arrivare al pannello sul tetto. Il fatto è che ogni  soluzione si propone di  mandare avanti il sistema consumistico e  industriale in maniera più efficiente.  Bisognerebbe rifarsi al concetto di emergy che è uno dei concetti  base della permacultura.
Ce lo puoi spiegare?
Il concetto di emergy – acronimo di embodied energy – venne formulato da Howard Odum (l’ecologista americano fra i  primi ad avere studiato il flusso energetico nell’ecosistema, N.d.R., al quale tra l'altro ho dedicato il mio libro). Emergy rappresenta un’unità  di misura dell'energia che prende in considerazione  non solo l'energia  necessaria per produrre qualcosa, ma anche tutte le risorse  naturali  ed energetiche impiegate per arrivare al prodotto finito. 
Puoi farci un esempio?
Se  noi vogliamo utilizzare i pannelli solari non possiamo  considerare  solamente l'energia necessaria per costruire i pannelli solari...
Generalmente non si fa neppure quello. Si considera  semplicemente che il pannello solare in sé non inquina.
Invece, applicando il  concetto di emergy si valutano anche le materie prime necessarie, la loro  estrazione, la lavorazione, il trasporto, la manutenzione   fino ad arrivare alla vita degli ingegneri che li hanno progettati i  quali  costano moltissimo in termini energetici. Pensa solo che hanno  studiato fino ai trent'anni,  con un enorme  dispendio energetico a carico della società (in realtà  della natura). Oppure,  l'ingegnere che ha progettato i pannelli solari  guadagna (e presumibimente  spende, e quindi consuma) molto di più, che  so, di una persona che pulisce i  pavimenti. Ecco, quello è un segno di embodied  energy. Quindi emergy  ha a che fare in  ultima istanza con il consumo di risorse e di  energia. In generale il punto è  che qualunque “novità”, che magari si  presume ci faccia risparmiare energia,  deve necessariamente  relazionarsi con altri sistemi che sono nel loro insieme  sempre più  complessi. Un ingegnere di cento anni fa non avrebbe potuto  inventare i  pannelli solari. Quindi bisogna considerare l'impatto dell'insieme  e  non solo della specifica cosa di interesse. Insomma, se da un lato si  crede  comunemente che le soluzioni, soprattutto quelle tecnologiche,  possano  risolverci i problemi, dall'altro dovremmo essere in grado di  vedere il costo  totale, in termini energetici e di risorse, che ha reso  possibile arrivare a  quelle soluzioni. 
Mi fa piacere sentirtelo dire. Parlo di emergy da sempre  senza saperlo...
(sorride) E' un sistema di calcolo energetico molto  complesso che però ci fornisce linee guida di pensiero da seguire. 
Cosa pensi di questo approcco specialistico proprio della  nostra cultura? Noi vediamo il mondo a compartimenti  stagni ma non l'insieme. 
L'approccio  riduzionista tipico della nostra cultura è  quello che ha dominato la  scienza negli ultimi tre secoli, e quindi a noi pare  ovvio che sia  l'unico possibile e giusto. Ma in realtà non è affatto l'unico e  per  quanto mi riguarda non è neppure giusto. Noi concepiamo il mondo come   un'enorme macchina fatta di componenti che smontiamo per “aggiustare” e  poi  rimontiamo per far funzionare il sistema. Abbiamo inevitabilmente  una visione  limitata, che ci fa ragionare in termini di giusto o  sbagliato, di positivo o  negativo. Se percepiamo una cosa come positiva  ne vogliamo sempre di più, se ci  sembra negativa,  vogliamo eliminarla. Ma non c'è nulla di positivo o  negativo di per  sé, dipende dal rapporto che la tal cosa ha con il tutto. La   permacultura, partendo dall’osservazione della natura, supera questo approccio riduzionista e anche per questo è  molto più vicina alla natura.
David, oggi i media parlano della crisi dell'economia e non  di petrolio o cambiamenti climatici...
Bisogna  capire che se siamo in recessione ciò è dovuto  principalmente  all'aumento del costo del petrolio che si era verificato nel  2008. È chiaro  che ci sono altri fattori che  hanno concorso alla situazione attuale,  ma alla base di tutto c'è stato  l'aumento del costo dell'energia.  Questo è un segnale che nessuno vuole  cogliere e la tal cosa è  ovviamente molto frustrante da un lato ma inevitabile  dall'altro. Politicamente, quella del picco del petrolio è una verità ancora più impronunciabile dei  cambiamenti climatici.
Come pensi che la permacultura possa interagire con la politica? La permacultura ha un  approccio bottom-up, dal basso verso l’alto, ben lontano da quello top-down, dall’alto verso il basso, della politica.
E infatti questo nostro modo di agire è stato oggetto di  molte critiche. È  vero che la permacultura lavora nel  piccolo, generalmente nell'ambito  della famiglia o della comunità di residenza,  ma del resto i problemi  che stiamo affrontando sono così complessi che se non  se ne prende atto  a livello piccolo, non si  riesce  ad affrontarli a livello grande. Sembra un paradosso ma non è così.   Rifletti, se non riusciamo a cambiare il nostro piccolo mondo come puoi  sperare di cambiare quello grande? Per cui se un cambio verrà  nel grande, questo è perché a livello piccolo ci  saranno le basi solide e pronte per il cambio. Il piccolo anticipa sempre il  grande. 
Come  ti senti a pensare che la permacultura è alla base del  concetto di  Transition Towns che rappresenta il movimento che oggi come oggi   suscita maggiori speranze?
Per  me è motivo di grande orgoglio. Credo che sia un  movimento molto  concreto ed efficace che affonda le radici nella comunità. E Rob  Hopkins, il fondatore, è un attivista che stimo molto. 
Qual è stato il ruolo  della permacultura a Cuba durante il Periodo  Especial?
Devo dire sinceramente che c'è l'idea molto diffusa  (promossa principalmente dal documentario Vivere senza petrolio.  L’esperienza di Cuba) che la permacultura  abbia “salvato” Cuba durante il Periodo  Especial – il  periodo degli anni Novanta in cui si  registrò una pesante crisi  energetica, con conseguente crisi alimentare e  difficoltà a livello  sociale che piegò l’intera isola [N.d.R.].  Per onestà bisogna dire che accanto ad essa c'è stato il  lavoro di  ricercatori universitari che già da anni portavano avanti studi per   sviluppare metodi di agricoltura organica e lo sviluppo di  biofertilizzanti e  biopesticidi. Comunque, la  permacultura ha aiutato i cubani che  già da soli, senza conoscenza  alcuna, si erano messi a coltivare ogni pezzo di  terra libero dell’Havana. Era terra poverissima ma la  gente era disperata per cui provava a coltivare di tutto, ovunque.
Certamente,  l'aiuto dei  permaculturisti australiani che si recarono a Cuba è stato  efficace ed è un  dato di fatto che da allora in quel paese ci sia  una visione su come produrre cibo, sui trasporti, e sulla vita in generale,  molto simile a quella della permacultura.
Quanto può essere di aiuto ai paesi occidentali l'esempio di  Cuba?
Normalmente  si tende a considerare Cuba come un povero paese  rurale dall'economia  sottosviluppata. In realtà Cuba aveva industrie e  soprattutto  l'agricoltura era moderna, meccanizzata e molto dipendente da   fertilizzanti e pesticidi di sintesi. Questo significa che, pur essendo per tanti aspetti diversa  dai paesi occidentali, le conseguenze del picco petrolifero  potrebbero  rivelarsi più simili di quanto non ci aspettiamo. A mio avviso,  ci sono similitudini ma anche punti di forza e debolezze  nei due  sistemi. Ad esempio un punto di forza dei Paesi occidentali, anche se   ci sono delle notevoli differenze all’interno degli stessi, potrebbe  essere la  nostra abitudine ad agire immediatamente, frutto di una  mentalità individuale e  liberista. Per contro, però, a Cuba si agisce come comunità e per  solidarietà, che credo sia molto più importante.
La permacultura lavora con e non contro la natura. Perché  regna sovrana l'idea che la natura sia competitiva e non cooperativa?
Direi  che la struttura cooperativa è prevalente in natura,  ma la natura ha  talmente tante facce, tanti modelli, che ovviamente sono  presenti anche  modelli competitivi. La  competizione è una parte vitale ed importante della natura ma non quella dominante. In realtà, dove ci  sono molte risorse le specie competitive tendono a proliferare, dove ce ne sono meno, invece,  si sviluppa una struttura più cooperativa e quindi stabile.  Potrebbe  essere quello che accadrà nel XXI secolo con l'esaurimento progressivo   di tutte le più importanti risorse. Dopo un  periodo  di transizione che temo sarà molto violento, potrebbe esserci  una relativa  pace. La storia lo dice chiaramente. Società che hanno  vissuto con meno risorse  hanno avuto meno conflitti. Se ci sono poche  risorse non vale neppure la pena  fare guerre. Si usa più energia di  quella che si ottiene.
Cosa puoi dirci del tuo libro Permacultura.  Principi e percorsi verso la sostenibilità? 
Il  libro viene dal mio lavoro di insegnamento dei principi  della  permacultura, lavoro che ho portato avanti principalmente dagli anni  '90.  Ma non è un lavoro facile, perchè questa disciplina, partendo  dallo studio  della natura, è in continua evoluzione. Quando mi sono  messo al lavoro sul  libro, dopo poco mi sono reso conto che stava  nascendo qualcosa che andava ben  al di là dell'insegnamento dei  principi della permacultura. Partendo da un modo  di produrre cibo si è  arrivati a un modo per ridisegnare l'intera società.  Credo che il libro  abbia il grande merito di aver rivitalizzato e ampliato il  concetto  stesso di permacultura. 
Quali consigli ti  senti di darci a livello personale e come la permacultura può aiutarci in tal  senso?
Più  che a livello individuale credo si debba ragionare in  termini di  comunità. A mio parere ci sono due paesi tra quelli industrializzati   che possono darci dei possibili modelli: il   Giappone e l'Italia. Entrambi, nonostante gli stili di vita  consumistici e la  forte urbanizzazione, mantengono diversi elementi  tradizonali sia nell'utilizzo  della terra che nei rapporti relazionali  tra la popolazione. Possono essere  elementi un po' annacquati ma  appartengono alla vostra cultura. Quindi credo che  in questi paesi il  compito della permacultura sia soprattutto trovare  elementi di unione con un modo antico di fare  agricoltura e con gli  aspetti relazionali che erano propri del mondo contadino  tradizionale. I  vecchi di oggi sono l’ultima generazione di quel mondo, e come  tale  rappresentano una memoria vivente. Per  una  cultura giovane come quella australiana invece credo sia più  intelligente  creare qualcosa di nuovo perché non c'è nulla da  recuperare.
David, un'ultima domanda. Come vedi il mondo tra venti anni?
Credo che oggi siamo già dentro a una fase di cambiamenti  estremamente caotica:  siamo a un punto di svolta nella  storia dell'umanità con la fine del  globalismo e un ritorno forzato al  localismo. Mi auguro che localismo  significhi anche e sopratutto diversità  culturale, che è qualcosa di  fondamentale per affrontare le sfide imposte dal  collasso  dell'economia, dal picco del petrolio e dai cambiamenti climatici.   Scordiamoci che ci sia una formula per affrontare queste sfide valida  per ogni  paese. Ogni paese o regione o città, svilupperà la sua  personale “ricetta di  emergenza”. 
 
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