domenica 25 luglio 2010

L’inferno esiste, è una prigione in Libia


La storia di Mohamed, somalo in fuga da una guerra civile. Il viaggio attraverso l’Etiopia, il Sudan, il Sahara. In Libia l’arresto. “A Ganfuda ci hanno torturati. Hanno stuprato le donne”. Cinque mesi di detenzione, “poi ho pagato per la mia libertà”

di Fabrizio Ricci

PERUGIA - Prima di tutto una premessa è dovuta al lettore: se la storia che è qui raccontata si fosse svolta due mesi più tardi, il finale sarebbe stato quasi certamente molto diverso e questa stessa intervista probabilmente non sarebbe mai stata scritta. Questo perché la storia di Mohamed, profugo somalo di 32 anni, sbarcato a Portopalo in Sicilia nel marzo 2009 e poi accolto nel nostro paese con diritto di asilo, è una delle ultime di questo genere ad avere un finale certo e – se così si può dire – positivo. Due mesi più tardi infatti, nel maggio 2009, il governo italiano ha avviato la pratica dei respingimenti verso la Libia dei barconi carichi di migranti fuggiti dai propri paesi di origine. Paesi come la Somalia, da cui proviene Mohamed Abdinor Abdikadir, attualmente ospite del centro per rifugiati politici del Comune di Perugia.

Mohamed, perché hai deciso di lasciare il tuo paese?
Non ho affatto deciso di lasciare il mio paese. Sono dovuto fuggire una notte del giugno 2008 da casa mia a Mogadiscio, perché volevano ammazzarmi. Sono scappato dopo che alcuni uomini del gruppo fondamentalista al-Shabab, collegato ad al-Qaeda, hanno aperto il fuoco contro le mie finestre. Avevano kalashnikov, bombe a mano e non so cos’altro. So solo che sono fuggito dalla finestra correndo in preda al terrore.

Come mai questo gruppo, al-Shabab, ce l’aveva con te?
Io sono un infermiere. Un bene raro nel mio paese. Gli al-Shabab volevano che lavorassi per loro, che curassi solo i loro combattenti feriti. Mi sono rifiutato e da allora hanno cominciato a perseguitarmi.

Che sta succedendo in Somalia?
Succede che dal 1991 c’è la guerra civile, un massacro continuo, centinaia di migliaia di morti, soprattutto donne, bambini e anziani. Prima con i “signori della guerra”, capi tribali che non avevano alcun interesse a far progredire il paese. Poi, dal 2006, con le Corti Islamiche, fondamentalisti che hanno conquistato la maggior parte del territorio nazionale e contro i quali l’esercito etiope ha avviato una guerra sanguinosa, con immensa sofferenza della popolazione civile. Più di un milione di persone sono dovute fuggire all’estero, molte di queste sono morte, molte altre sono state perseguitate.


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Che hai fatto dopo essere scappato dalla finestra?
Ero in preda al terrore e non sapevo come gestire la situazione. Ho chiesto aiuto a un amico che mi ha nascosto per la notte. Poi il giorno dopo sono partito senza avere ancora la minima idea di dove andare. Ho lasciato Mogadiscio e ho raggiunto Baydhabo, 240 chilometri ad ovest, verso l’Etiopia.

E’ lì che eri diretto?
Sì, nei giorni successivi ho superato il confine con l’Etiopia e ho raggiunto Addis Abeba, dove sono rimasto un mese. E’ lì che ho conosciuto altri somali che come me stavano scappando. Erano diretti in Europa, più precisamente in Italia. Insieme a loro abbiamo attraversato il Sudan e poi il deserto del Sahara, verso la Libia.

Come viaggiavate? Come avete attraversato il deserto?
Eravamo in un piccolo camioncino, 33 persone. Non c’era spazio lì dentro, a malapena si respirava. E’ stata un’esperienza davvero durissima, non potrò mai dimenticarla.

Chi gestisce questi viaggi?
Ci sono dei veri e propri professionisti. Sono molto organizzati. Prima ti ospitano a Khartoum per alcuni giorni, poi radunano un gruppo di profughi e lo caricano su questi camion che attraversano il deserto, fino al confine con la Libia.

E in Libia cosa ti è successo?
In Libia è stato terribile. Appena passato il confine, arrivati nella città di Cufra, siamo stati arrestati dalla polizia e dopo tre giorni trasferiti a Bengasi, in una grande prigione che si chiama “Ganfuda”, dove erano rinchiuse almeno 1.500 persone, di cui 600 somali come me e poi ganesi, nigeriani, sudanesi e altri ancora.

Perché vi hanno arrestato?
Perché non avevamo documenti. Questo ci hanno detto. Noi abbiamo cercato di spiegare che eravamo profughi, che in Somalia non c’è un governo ed è impossibile avere dei documenti, che stavamo fuggendo perché le nostre vite erano in pericolo. Ma non è servito a nulla. A loro non importava nulla, ci trattavano come animali. Non come esseri umani. A Ganfuda ci hanno insultati, picchiati, torturati. Hanno stuprato le donne che erano con noi. E’ stato un incubo.

Quanto tempo sei stato rinchiuso là?
Cinque mesi. Cinque mesi in condizioni critiche. Abbiamo patito la fame. Al mattino avevamo un pezzo di pane e una tazza di tè, a pranzo un piccolo piatto di riso da dividere in 5 o 6 persone e la sera un po’ di pasta. Non bastava mai per tutti. E poi le condizioni igieniche erano pessime. Non potevamo lavarci e i nostri corpi diventavano sempre più sporchi. Abbiamo avuto casi di scabbia, di zecche e anche malattie più gravi. Qualcuno è persino morto lì dentro.

Come hai fatto ad uscire da Ganfuda?
Nell’unico modo possibile in quel mercato di bestie: ho pagato per la mia libertà. Circa 1.200 dollari. Se non hai i soldi non puoi uscire, sei condannato a morire in quel posto.

Avevi con te una cifra simile?
No, ma loro ti danno la possibilità di trovarli, i soldi. Ho contattato la mia famiglia in Somalia, poi due poliziotti mi hanno accompagnato in uno di questi money transfer dove ho ritirato i soldi che mi avevano mandato. Così ho potuto comprare la mia libertà.

E poi da Bengasi come è proseguito il viaggio?
Mi sono spostato a Tripoli per cercare di raggiungere la costa e salpare per l’Europa. Ma sono rimasto bloccato a lungo in città, uno, forse due mesi. Non ricordo bene quel periodo, troppa frustrazione e rabbia.

E a Tripoli dove eri sistemato?
C’erano altri somali che erano usciti di prigione con me. Loro avevano dei contatti a Tripoli, conoscevano delle persone che ci hanno ospitato a casa loro e ci hanno messo in contatto con quelli che organizzavano i viaggi per l’Italia. Abbiamo pagato ed eravamo pronti a partire, ma una notte la polizia libica ha fatto irruzione nella casa in cui eravamo ospitati. Erano senza divise, ma armati. Qualcuno doveva averli avvertiti della nostra presenza.

Cosa volevano?
Ci hanno detto che sapevano della nostra intenzione di fuggire in Europa e che se non avevamo i documenti ci avrebbero riportato in prigione. Anche in questo caso però ci hanno dato un’alternativa: pagare 100 dollari a testa per non essere arrestati. Ovviamente, con il ricordo ancora fresco di Ganfuda, abbiamo tutti pagato senza battere ciglio. Poi siamo scappati di corsa da quella casa, perché sapevamo che sarebbero sicuramente tornati.

E finalmente siete riusciti a salpare per l’Italia...
Sì, dopo alcuni giorni ci siamo riusciti. Eravamo 250-260 persone, troppe per quel tipo di imbarcazione. Anche il viaggio in mare è stato molto duro, specie per me che non ero mai salito su una barca come quella. Per fortuna però siamo arrivati sani e salvi a Portopalo, era la fine di marzo del 2009. Poi ho passato alcuni mesi al centro per immigrati di Crotone. Una volta ottenuto l’asilo politico mi hanno mandato qui a Perugia.

Mohamed, tu sei consapevole del fatto che se fossi arrivato due mesi più tardi, molto probabilmente saresti stato respinto in Libia?
Sì, ne sono consapevole. Ed è molto triste sapere che c’è gente che è fuggita dai drammi del proprio paese, che è sopravvissuta al deserto, alle prigioni della Libia, alla traversata in mare, per poi essere rispedita di nuovo in Libia. Io so bene cosa succede lì a quelli come me.

fonte: www.rassegna.it

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