martedì 14 dicembre 2010

Xinjiang, chiusa una fabbrica che impiegava operai in condizioni di schiavitù

 
I lavoratori, affetti da malattie mentali, non erano pagati ed erano nutriti con cibo per cani.
 
Nella provincia dello Xinjiang, le indagini della polizia cinese hanno portato all'individuazione di una fabbrica che impiegava manodopera schiavizzata per la produzione di materiali da costruzione.
Secondo quanto riportato dal Global Times - rivista filogovernativa in lingua inglese - i lavoratori, affetti da alcune malattie mentali, erano stati venduti all'azienda incriminata, operante nella contea di Toksun, da Zeng Lingquan, direttore di un organizzazione pseudo-caritatevole, la Quxian Beggars' Adoption Agency. Ogni "schiavo" veniva venduto ad un prezzo di 9000 yuan (pari a 1.350 dollari), a cui se ne aggiungevano, ogni mese, altri 300 per la forza lavoro erogata da ciascuno di essi.
Non percepivano un salario, non era data loro la possibilità di lavarsi da diversi anni, in più erano nutriti con lo stesso cibo dei cani. Ogni tentativo di fuga era represso con violente bastonate.
Uno scenario inquietante, ma che non rappresenta certo un caso isolato. Tre anni fa, nella provincia di Shanxi, centinai di operai erano impiegati in condizioni disumane.
Zeng Lingquan è sotto custodia cautelare, mentre il proprietario della fabbrica ha fatto disperdere le proprie tracce. Gli sforzi della polizia sono fortemente incoraggiati dal governo locale e dalla dirigenza centrale, così come la denuncia di casi simili e, più in generale, dei fenomeni di corruzione.
La mancanza di sindacati liberi ed indipendenti è terreno fertile per lo sviluppo di questi fenomeni criminali diffusi a livello nazionale, fortemente incentivati da un mercato mondiale che premia le esportazioni cinesi per la loro costante competitività internazionale.
Le élite politiche di Pechino condannano rigorosamente questi reati, perché la "società armoniosa" che persegue il governo di Hu Jintao prevede la riduzione delle diseguaglianze economico-sociali. Alla radice, il timore che questi fenomeni possano fomentare gli "incidenti" (leggi "rivolte") che sono aumentati negli ultimi anni di boom economico, a causa della crescita diseguale.

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