giovedì 1 luglio 2010

Democrazia: quella dei nostri successori non sarà quella dei nostri predecessori

di Raffaele Langone

Nel mio piccolo e delizioso paese, Savoia di Lucania, non siamo in tanti e non ci sono molti svaghi e mi capita quindi qualche volta di passeggiare da solo lungo le strade che costeggiano il borgo antico, o di fare avanti e indietro nella centrale piazza del Plebiscito. In questo andare dal “tabacchino” all’ingresso della villa comunale, mi capita ogni tanto di pensare, di pormi delle domande, le più disparate, come ad esempio quella di come sia oggi difficile definire il concetto e il significato di “libertà”; o, meglio, della libertà.
Qualcuno dirà: ma questo è matto..porsi queste domande !!! Ma goditi la vita.
E invece, ahimè, passo il tenpo a pormi questa ed un’altra infinità di domande. Mi godo la vita ANCHE così.
Dunque, il termine democrazia è nato come rivendicazione in società semplici, nelle quali l’ottanta per cento del reddito derivava dall’agricoltura, mentre le classi sociali erano poche e chiaramente definibili.
Oggi i sociologi, e non solo, parlano di società “complesse” o addirittura “liquide”, (Bauman) nelle quali flessibilità e mobilità, in termini di redditi e di classi, sono molto accentuate.
In queste condizioni, è quasi un miracolo che, per la sua grande pregnanza, la libertà abbia continuato a rimanere un valore, così come è quasi un miracolo che si sia sviluppata, lungo tre secoli, in Occidente e in situazioni tanto diverse, una democrazia rappresentativa basata sul consenso (da cui, in termini politologici, i sistemi politici che vengono definiti “liberaldemocratici”: nel senso che libertà e democrazia nascono e si sviluppano contemporaneamente, o in parallelo).
Due sono le principali questioni che mi sono posto: la prima è che le limitazioni alla libertà è “riduttivo” attribuirle all’«onnipotenza del profitto, che qualche volta si è indotti a ritenere come la nuova divinità a cui tutto si piega».
La seconda è che una di queste pericolose limitazioni, cioè la «pervasività» telematica con «l’acquisizione e l’accumulo di dati» su di noi «potrebbe apparire innocuo quando si vive in uno stato di diritto».
Sul primo punto occorre risalire a Marx, che vedeva «il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà» come caratteristica di un socialismo che metteva fine all’onnipotenza del profitto. Marx era e rimane un grande pensatore, ma su questo punto la sua visione può essere effettivamente ritenuta riduttiva.
Quella che un politologo, mi sembra fosse Maurice Duverger, definisce «la rivoluzione culturale borghese» ha all’origine l’esaltazione del profitto (ma non la sua «onnipotenza»); ma è un fenomeno più complesso di quanto possa essere definito dal riduttivismo economistico.
E’, appunto, questa rivoluzione, un prodotto “culturale”, alle cui componenti occorre risalire: appunto per vedere se e quali limiti ne derivino alle “libertà” (soprattutto in rapporto alle culture “altre”, non “borghesi”, presenti nello stesso Occidente e in diverse aree culturali non “occidentali”).
Il secondo punto è relativo alla sicurezza (per le libertà) che ci viene garantita dallo stato di diritto, nel quale si concreta la democrazia rappresentativa.
Questa garanzia è in difficoltà, a partire dal paese, gli Stati Uniti, che ne è stato garante lungo il drammatico XX secolo.
Faccio un solo esempio: per la prima volta nella sua storia, nelle elezioni del novembre 2006, mi è rimasto molto impresso, il “New York Times” ha appoggiato candidati di un solo partito (quello democratico) e non di entrambi a seconda delle loro qualità personali, con la motivazione che «queste elezioni sono un referendum su Bush.
Per noi il punto di rottura si è avuto col tentativo dei repubblicani di minare il sistema fondamentale di separazione dei poteri che ha tutelato la democrazia americana sin dalla sua nascita». (Quel che sta accadendo in questi mesi da noi, in Italia, con il tentativo di approvazione della legge BAVAGLIO e delle varie proposte di modifica del complesso di principi e leggi che pongono tutti i cittadini ad essere uguali di fronte alla Legge.)
Comunque, per tornare al nostro ragionamento, in quel caso mi sembrò subito che fosse stato riduttivo parlare solo di Bush e dei repubblicani, in america.
E’ come se oggi volessimo ridurre in Italia la questione delle libertà a ciò che pensa l’on Quagliariello o il senatore Gasparri piuttosto che l’onorevoleCasini.
Secondo me E’ un problema di tutte le democrazie rappresentative, che dal punto di vista politico potenziano il ruolo del potere esecutivo e dei suoi controlli pervasivi a scapito degli altri due (legislativo e giudiziario) e non riescono più a controllare i “poteri forti” dell’economia finanziaria globalizzata, mentre nello scorso secolo avevano tentato di farlo con due grandi liberali, Keynes – con l’intervento pubblico in economia – e Beveridge – con il welfare, che garantiva i ceti deboli «dalla culla alla tomba».
Questi i due temi secondo me da approfondire ed ai quali dare una resposta velocissimamente: il “riduttivismo” economicista da un lato, e la difficoltà dello stato di diritto dall’altro.
E credo sia utile pensare della libertà ciò che un altro politologo, Robert Dahl, dice della democrazia: quella dei nostri successori non sarà quella dei nostri predecessori; o si amplierà, o si restringerà.

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fonte : www.gliitaliani.it
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