mercoledì 6 aprile 2011

Una giornata in corsia con le sorelle del Panjshir

tratto da: Terra
Luca Bonaccorsi dal Panjshir

REPORTAGE Sei ragazze italiane (e un uomo) mandano avanti il primo medical center di Emergency in Afghanistan. Nella valle mozzafiato del Medioevo islamico islamico dove il mitico Massud sconfisse i tank sovietici


D'inverno polmonite. D’estate diarrea. Benvenuti nella valle del Panjshir, quella mitica, del comandante Massud, il fiero mujaeddin che a cavallo sconfisse i tank e gli elicotteri dell’armata sovietica. E che liberò Kabul dai talebani. La storia non è andata proprio in questo mondo, ma così dice il mito. E al mito, come al cuor, non si comanda. Perché Massud avrà pure salvato i valligiani dalla dominazione sovietica e talebana, ma contro malnutrizione e infezioni intestinali ha fatto ben poco. Per questo, e tanto altro, i suoi 350mila conterranei possono rivolgersi quasi esclusivamente alle sorelle del Panshir. Michela, Sara, Raffaela, Emanuela, Paola ed Eleonora. Sei donne italiane, giovani, belle e preparate. Medici e infermiere con i controattributi. In un telefilm americano sarebbero gli angeli di Gino. Gino Strada, quello di Emergency (a dire il vero c’è anche un uomo, un internista schivo, che sarebbe il primo ad essere contento di rimanere fuori da questa storia).


Qui è nato il primo insediamento afghano di Emergency nel 1999. Pochi chilometri dopo quell’imbuto micidiale che è l’ingresso della valle, Dalang Sang. Una strettoia inespugnabile: pareti verticali di roccia ai lati, torrente in mezzo, stradina sul lato sinistro del fiume per chi arriva in valle. Le Termopili afgane hanno sempre difeso i campi verdi e fecondi, le piantagioni terrazzate, gli alberi di frutta di questo luogo mozzafiato. L’ospedale di Emergency fa la differenza tra la vita e la morte per un numero impressionante di civili. Al pronto soccorso l’anno scorso sono passati in quasi 12mila, 11mila al pediatrico, 7mila all’internistico e 16mila in maternità. Altri 16mila sono stati trattati dalle 17 cliniche e centri di primo soccorso che Emergency ha sparsi nella valle che costeggia il fiume Panjshir, mentre si insinua tra le montagne per circa 100 km fino ai passi Khawak e Anjoman. Di queste 60mila persone “visitate”, 2250 sono state ricoverate in chirurgia, 4625 in maternità, 700 in pediatria, oltre 800 in neonatale. Il record del reparto di ostetricia è freschissimo: a marzo, 340 parti. Solo che di turno qui ci sono solo due ostetriche (in Italia sarebbero 10). Tutto questo lavoro è costato al team di Gino Strada quanto un giorno di missione militare italiana in Afghanistan. E, soprattutto, non è costato un centesimo ai malati: tutte le cure sono gratuite. Il piccolo plotone di Emergency, capitanato dall’inflessibile e piemontesissima Michela, coordina il lavoro di 260 lavoratori afghani.

L’ospedale è una macchina che deve funzionare 24 ore e le notti diventano spesso brevi. Ma, passato il cancello, pulizia e organizzazione somigliano più ai cantoni svizzeri che a questo lembo martoriato di pianeta. Una giornata in corsia Ufficialmente la giornata inizia poco prima delle otto. Alle 8,30 in punto parte il giro in corsia. Il giro dei pazienti in ospedale è il modo (assai severo) scelto per fare la biografia di questo luogo. La prima bimba in pediatria (che bello il reparto bianco immacolato con i disegni di Vauro alle pareti), ustionata alle gambe, è deforme. Qui ci sono abituati, in valle l’accoppiamento tra consanguinei è la norma. A volte i genitori portano i figli malformati al pronto soccorso e chiedono di guarire crani enormi, piedi storti, ritardi mentali e motori, addebitandoli a traumi o cadute. Se sia per ignoranza o una patetica bugia per accedere a qualche forma di assistenza non è sempre chiaro. La bimba comunque sta malissimo. La seconda ha un testone enorme ma è tutta un’altra storia. Ha 14 mesi e pesa 5 chili. è rachitica, probabilmente malnutrita dalla nascita, ma è vispa, simpatica sorridente e vitale. Non te lo aspetteresti nella valle verde dei gelsi, ma la malnutrizione qui è a livelli africani. Accanto a lei c’è un bimbo, stesso peso, ma di 4 mesi. Il torello, pacioso, è qui per un’infezione intestinale. Il flagello più comune nella splendida valle senza fogne né acqua corrente. Le mamme di igiene sanno poco. Ancora se la ricordano quella bimba di due settimane arrivata in ospedale che non era mai stata lavata dal parto (casalingo, molto comune). Nel letto accanto due gemellini di poche settimane con la loro giovanissima madre. Uno dei due ha una pessima cera, forse non ce la farà. In neonatologia, due gemellini prematuri di poco più di un chilo sono in incubatrice. Prematuri di quanto, è difficile dirlo. Le donne qui non tengono traccia del ciclo mestruale, spesso irregolare. Anche perché qui nessuno sa esattamente la propria età, non essendo attivo un servizio di anagrafe. L’ultima tappa della geografia neonatale panshira è appena arrivata ma è già sola. Piccolissima, prematura e sottopeso, ha visto la madre andarsene pochi giorni dopo il parto verso un ospedale di Kabul per una sospetta tubercolosi. Da allora nessuna notizia. Nessun parente si è fatto ancora vivo per questo chilo e mezzo di mujaeddin senza nome. Ma la salute delle donne, e quindi dei bambini è solo una parte della storia. Che continua nel reparto maschile. Nel letto 8 un bambino di circa 10 anni è seduto. è un bel ragazzino tagiko, occhi chiarissimi. Sguardo triste, testa china, si regge il braccio destro con la sinistra. La mano è coperta da una benda. Il medico la alza per svelare un arto dilaniato. Tra pollice e mignolo una sola grande ferita. Pollice e mignolo sono tutto quello che ad Abdullah ha lasciato quella pallottola esplosa, con cui sarebbe stato meglio non giocare. Ma qui di giochi ce ne sono davvero pochi. Armi, mine e bombe inesplose invece abbondano. All’Afghanistan va il triste primato delle mine antiuomo. I medici osservano la ferita. Abdullah non si lamenta. Quando una lacrima sale, china il capo per non farsi vedere. Senza emettere un suono. Solo allora ti accorgi di un’altra peculiarità panshira: qui non piange nessuno.

«Alta soglia del dolore», dicono i medici. Ma forse, quando la vita è dura fin all’inizio, piangere e lamentarsi sembra inutile. Accanto c’è un coetaneo, sorride. Era solo un calcolo renale il suo e tornerà presto a giocare. I calcoli qui sono la norma, l’acqua è pesantissima, piena di minerali e inquinata. Accanto al bimbo c’è un signore sulla cinquantina, mani da contadino, con una cicatrice fresca che gli attraversa tutto lo stomaco verticalmente: omaggio di un’appendicite andata in peritonite. L’appendicite c’è anche da noi, ma esiste una variante panshira. Nel senso che ai primi dolori i valligiani vanno dal farmacista, o dall’esperto di turno. Morale: quando arrivano in ospedale la frittata è fatta, l’appendice esplosa e l’intervento d’urgenza garantito. Il legame con l’alimentazione locale è difficile da sostenere scientificamente, ma c’è da scommettere che quelle lattine di olio di palma che arrivano dal Pakistan con scritto su «per uso alimentare solo in Afghanistan», che i locali usano per cuocere i cibi, forniscono grassi che non aiutano. I malati psichiatrici non ci sono perché l’ospedale non è attrezzato per affrontarli. Ma in valle non mancano. Tra matrimoni combinati, guerra e condizioni medievali di vita la gente impazzisce. Un capitolo inaffrontabile per ora. Il riposo delle sorelle Cala il sole, turno finito. La macchina di Emergency porta tutti nella casa (di fango ma bellina) appartata in paese. Guardie armate fuori.

Sulla sicurezza Emergency è severissima. Non si esce da soli, non si frequentano i “locali”. L’idea è che lo staff italiano è qui per fare una cosa sola nei 6 mesi di turno: curare. L’attenzione a non suscitare tensioni con i mullah locali è quasi fobica. A casa, dopo i turni alienanti le sorelle del Panjshir si sciaquano i pensieri con dosi insalubri di tv trash italiana, gentilmente fornita dalla parabola sul tetto sempre che il cavo dell’antenna, tenuto da carrucole leonardesche e un rotolo di carta igienica, permetta. Il pomeriggio della 5 va fortissimo. Per il resto la terapia ricostituente prevede dosi massicce di nutella e spaghetti. A tavola, la sera, orifizi, secrezioni e casi clinici. Ma forse è una scenetta per vedere quanto regge l’appetito dell’ospite. Si tenta pure un dvd, ma dopo 10 minuti dormono tutti. Ore 7,20 sveglia (piemontese) e caffé. Il cielo è azzurro, il vento gelido, le cime innevate non hanno nulla da invidiare alle Alpi. (Solo che qui non puoi passeggiare senza rischiare di saltare su una mina. E il bagno nel torrente non è gradito ai mullah). Ore 7,55 in ospedale le sorelle del Panjshir si preparano al giro in corsia (Francesco è già qui che smadonna con lo staff in ritardo). Raffaela dorme, stanotte le sono toccati 17 parti, un paio deformi, come al solito. è iniziato un altro giorno all’ospedale di Emergency.

4 commenti:

  1. Questi sono i veri eroi, non certe ipotetiche star della Tv.

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  2. Paòlo, pienamente d'accordo *_*
    Namastè

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  3. Ciao Sara Priscilla, Benvenuta! *_*

    Hai ragione, sono le più grandi!!!

    Ti abbraccio e a presto!
    Namastè

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