martedì 21 settembre 2010

Indigeni delle isole: tra mare e sviluppo

tratto da: www.unimondo.org

di Piergiorgio Cattani

Le isole e il mare formano un binomio inscindibile, non c’è l’uno senza le altre. Ma ci sono nel mondo isole che nascono dal mare in un rapporto simbiotico e che possono morire nel mare a causa dei cambiamenti climatici. Secondo le previsioni dell’IPCC del 2007 entro la fine del secolo il livello dei mari si alzerà tra i 30 e gli 80 cm (mentre altre stime parlano di un range compreso tra i 9 e gli 88 cm, altre ancora tra 80 e 140 cm), un'altezza che sembrerebbe minima ma che invece, se confermata nella realtà, sommergerebbe interi arcipelaghi, trasformando notevolmente la linea delle coste.
Sono cifre messe in discussione da chi non vuole rendersi conto delle conseguenze del riscaldamento globale: ma sono le notizie di questi ultimi due anni che parlano più dei numeri. Il governo delle Maldive (ricordiamo tutti il Consiglio dei Ministri subacqueo dell’ottobre 2009) sta cercando di comprare una “seconda patria” sulla terraferma. Gli abitanti delle isole Tuvalu sono stati tutti ritratti da un fotografo giapponese prima della scomparsa in mare della loro terra, i 1500 residenti degli atolli Carteret (in Papua Nuova Guinea) sono stati costretti ad evacuare le loro isole diventando così i primi veri profughi ambientali, l’Indonesia nei prossimi trent’anni si preparerà a fare lo stesso con 2000 isole a rischio, le coste del Bangladesh, la cui isola maggiore Bhola ha perso metà della sua superficie negli ultimi 10 anni, sono erose dall'innalzamento dell'oceano e dagli effetti della cultura intensiva del riso.

Altre isole, e i loro abitanti, non hanno il problema dell’innalzamento del livello del mare ma ugualmente sono minacciate da altri eventi naturali e da altre azioni umane. Nel dicembre 2004, quando uno tsunami dall’intensità catastrofica si abbatté lungo le coste di tutto l’Oceano Indiano, l’arcipelago delle Andamane e delle Nicobare (isole sotto la sovranità dell’India ma geograficamente più vicine alla Birmania e alla Thailandia) fu una delle zone più duramente colpite. Difficile quantificare i danni e il numero di morti e dispersi anche perché i numerosi gruppi indigeni vivono ancora ai margini della cosiddetta civiltà “evoluta”.
Alcune di queste popolazioni però, applicando le conoscenze tradizionali relative al mare e ai comportamenti anomali degli animali selvatici, riuscirono a salvarsi dall’onda anomala e a sopravvivere al disastro. Il rapporto con le etnie indigene, spesso poco conosciute e sicuramente lontane da qualsiasi standard culturale a cui siamo abituati in occidente come in oriente, è sempre stato difficile per i dominatori di turno: prima gli inglesi che consideravano le popolazioni negroidi delle isole alla stregua di selvaggi, poi gli indiani che cercano in ogni modo di “educarli” alla vita civile soprattutto per poter sfruttare le risorse economiche e turistiche dei loro splendidi e incontaminati territori.
Secondo il sito ufficiale dell’amministrazione dell’arcipelago sono quattro i principali gruppi indigeni delle isole: i Grandi Andamanesi (44 individui), gli Onge (105), gli Jarawa (300) e i Sentinelesi (ridotti a 100 unità). Queste ultime due etnie, dipinte dal sito con sfumature che ricordano le descrizioni settecentesche europee dell’incontro con i “selvaggi”, sono considerate “ostili” e refrattarie a qualsiasi contatto benché integrate perfettamente nell’ambiente circostante. A più riprese il governo indiano ha cercato di portare queste sparute tribù (che però rappresentano l’anima della biodiversità umana) nell’alveo della civiltà finendo però per trasmettere loro malattie a causa delle quali questi gruppi furono decimati.
Queste popolazioni sono balzate alla cronaca internazionale nel marzo scorso con la scomparsa di Boa Sr, l’ultima longeva rappresentante dell’etnia Boa, uno dei più antichi gruppi umani (si parla di 65 mila anni): con lei si perdeva anche la lingua bo. È singolare che le riflessioni più preoccupate abbiano coinvolto soprattutto quest’ultimo aspetto con dissertazioni sulle lingue che stanno morendo, dimenticandosi che è ben più grave che sparisca una tribù portatrice di tradizioni, abilità, costumi significativi e peculiari, pur essendo sicuramente primitivi.
Recentemente l’etnia Jarawa è stata anch’essa al centro dell’attenzione per la proposta di un parlamentare indiano, rappresentante delle Isole, di strappare dalle loro famiglie i bambini Jarawa per poterli rieducare alla civiltà: questa sarebbe la soluzione finale di un problema storico. Le sdegnate reazioni che si sono sollevate in tutto il mondo non riescono però a centrare la questione di fondo del rapporto con i diritti dei popoli indigeni, cioè il tema dello sfruttamento delle risorse naturali di un determinato territorio condotto senza il minimo rispetto per i secolari abitanti di quei luoghi. Quello stesso sfruttamento che genera ulteriori emissioni di anidride carbonica che a sua volta provoca il minaccioso aumento del livello del mare: un circolo vizioso che potrebbe segnare la sorte d’intere popolazioni destinate a scomparire nell’indifferenza generale.
Survival International fa pressione, anche con l’invio di lettere on line, per salvaguardare i pochi diritti dei pochi indigeni rimasti. Prendiamo carta e penna.
Piergiorgio Cattani

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