lunedì 13 settembre 2010

Il rifugio delle colf scappate dagli abusi

fonte: Humanità_uomo


Julita è una filippina venuta ad Abu Dhabi per fare la colf: «La mia “signora” non voleva pagarmi e mi picchiava, ma quando l’ho denunciata sono finita in carcere»


«Quello che chiedo? Solo giustizia...». Julita parla senza riuscire a trattenere le lacrime.
Il dolore che le provoca ripercorrere la sua vicenda si mischia alla tensione del futuro avvolto nell'incertezza. Julita Quyinlog, 45 anni, è una delle tante colf filippine che ogni anno lasciano la loro patria per mettersi al servizio di famiglie degli Emirati.
Si calcola che le immigrate filippine nel Paese siano circa mezzo milione. La maggior parte è costituita dalle infermiere: «senza di loro gli ospedali qui sarebbero costretti a chiudere subito!», è il commento di tutti. Ma le più vulnerabili sono senz'altro le collaboratrici domestiche, circa 50 mila donne che purtroppo non sempre, tra le mura delle case di cui si prendono cura, vengono trattate con la correttezza che l'umanità - e la legge - richiederebbero.

Julita è una di quelle per cui l'avventura migratoria è finita male.
Partita dalle Filippine con in mano un contratto di due anni che le prometteva quattrocento dollari al mese per lavorare come cuoca nella casa del suo sponsor, una volta arrivata ad Abu Dhabi, nell'agosto del 2009, si è accorta subito che le cose sarebbero andate diversamente. «La prima volta che ho chiesto lo stipendio, la mia "signora" mi ha risposto che non avrei ricevuto nulla prima di un anno.

Mi ha detto che anche la colf precedente aveva accettato quelle condizioni», racconta Julita. «Al momento non ho avuto il coraggio di insistere, ma dopo un mese sono tornata a parlarle, supplicandola di darmi quello che mi spettava, perché la mia famiglia, a casa, aveva bisogno del mio aiuto. È stato allora che è incominciato l'incubo». La padrona di casa trascina Julita in una stanza e lì, insieme al figlio maggiore, la picchia. Quando la donna chiede di poter andare all'agenzia di collocamento per cambiare datore di lavoro, le botte non fanno che aumentare.

«Un giorno, esasperata, ho minacciato di andare alla polizia: "Il mio corpo è pieno di cicatrici!", ho detto. "Mi crederanno!". Poi, però, ho avuto paura che facessero qualcosa di molto brutto e, non appena sono rimasta sola, sono scappata saltando dalla finestra. Ferita e disperata, sono andata all'ospedale Khalifa per farmi medicare. Da lì mi hanno portata alla polizia per sporgere denuncia, ma, visto che era necessario verificare le mie accuse, mi hanno chiusa in prigione: ci sono rimasta un mese e sette giorni, con una catena legata alla caviglia. Ero disperata, non sapevo che cosa avrei fatto».
OGGI, JULITA è al sicuro. Parla seduta in una stanza del rifugio aperto dall'ambasciata filippina nell'edificio del Labour Office. «L'abbiamo creato per aiutare le donne scappate da abusi: sfruttamento, violenze, in qualche caso molestie sessuali», spiega l'ambasciatrice filippina, Grace Princesa. Che specifica come «questi casi, in realtà, riguardino solo una piccola minoranza delle colf». Eppure, sono circa duecentocinquanta le donne ospitate nel rifugio, pensato per dare alloggio a trenta, al massimo cinquanta persone.
Disagi e difficoltà sono immaginabili: le donne vivono letteralmente ammassate nelle poche stanze disponibili, mentre di notte il rifugio "invade" gli spazi dell'ambasciata: «Siamo obbligate a sistemare i materassi persino sui corridoi tra le rampe di scale», racconta una operatrice. Le ospiti restano qui da due settimane fino a vari mesi e persino anni, in attesa che si sblocchino le vertenze legali. «Organizziamo corsi di computer e di aggiornamento professionale: manicure, cucito, artigianato», spiega ancora l'ambasciatrice. «Oltre a combattere l'alienazione, queste attività puntano ad offrire alle donne qualche prospettiva di lavoro una volta rientrate in patria».
Per poter tornare a casa, però, è necessario sbrogliare situazioni complesse e delicate. «Cerchiamo un accordo tra le lavoratrici e le famiglie che le avevano assunte. A volte convinciamo il datore di lavoro restituire il passaporto, garantendo che il prossimo sponsor rifonderà il primo, che ha anticipato del denaro all'agenzia di collocamento». In molti casi, tuttavia, una conciliazione è impossibile: «Capita che le famiglie, di fronte alla fuga della dipendente, per tutelarsi la accusino di furto. In questi casi è difficile fare qualcosa», spiega Princesa.
«Il nostro obiettivo è che le casalinghe immigrate siano incluse nelle tutele garantite dalla Legge sul lavoro». Tu¬tele di cui, per esempio, Julita non ha goduto: «Il mio sponsor ha offerto di restituirmi il documento, ma io voglio andare fino in fondo e ottenere un risarcimento per le violenze, oltre ai miei stipendi. Sono già più di quattro mesi che aspetto, qui nel rifugio, l'esito della vertenza». Nessuno sa quanto ancora Julita dovrà aspettare.

di Chiara Zappa

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