(Foto: © Sciclinews)fonte: http://www.unimondo.org
Nel giorno che sancisce ufficialmente la fine della guerra in Iraq, il presidente Obama ringrazia tutti i militari  statunitensi. Per Obama, che ha ricevuto suo malgrado il fardello di  due guerre in corso, “l'impegno dei soldati ha reso l'America più sicura  ed ha aperto la strada alla democrazia a Baghdad”. 
Non sono  certo che il Premio Nobel per la Pace sia realmente convinto di  quest’affermazione pronunciata a denti stretti ed occhi socchiusi in una  stanza spoglia, priva di bandiere ma la sua preoccupazione, ora, è  altrove: la via d’uscita anche dall’Afghanistan ove, mentre scrivo,  sette giovani soldati americani hanno trovato la morte. 
Ma cosa  resta dopo una guerra? Forse alcuni dati ci aiutano a meglio comprendere  l’Iraq. Secondo le Nazioni Unite il 23% della popolazione irachena  vive, oggi, al di sotto della soglia di povertà (2,2 dollari al giorno a  persona). Nei primi tre mesi del 2010 l’offerta di elettricità è stata  superiore del 7% rispetto al trimestre precedente e del 14% rispetto  allo stesso periodo del 2009. Lo riporta un rapporto di aprile  dell’Ispettore speciale Usa per la ricostruzione in Iraq. La produzione  di elettricità è rimasta però al di sotto del record toccato tra il  luglio e il settembre 2009. Quanto alle condizioni igieniche siamo  all’emergenza sanitaria: meno del 70% della popolazione residente fuori  Baghdad riceve acqua potabile e la percentuale scende al 48% nelle aree  rurali del paese. Ciò sta creando un flusso inverso città campagna. 
I dati sulle violenze. Nonostante siano notevolmente diminuiti gli  attentati nel ...
paese negli ultimi due anni e mezzo, che coincide con il  metà mandato di Obama, nel corso del 2009 sono morti in Iraq a causa di  violenze 4.645 civili. Nel 2008 erano stati quasi il doppio. Nei primi  quattro mesi del 2010, stando ai dati dell’Iraq Body Count, sono morti 1.010 civili. Se  guardiamo il grafico del numero dei più di 106.000 civili morti  ammazzati dall’inizio guerra vedremo che nel biennio 2006-2007,  all’indomani dell’impiccagione di Saddam Hussein, v’è stato il triste  apice. L’esecuzione fu un errore imperdonabile che ha scatenato una  violenza senza precedenti.
Infine, l'occupazione lavorativa può  darci il polso sulla sicurezza. Il numero degli iracheni impiegati nel  settore pubblico è raddoppiato dal 2005. L’amministrazione pubblica  fornisce attualmente il 43% di tutti i posti di lavoro nel Paese e il  60% dei posti a tempo pieno. Ingenti aiuti esterni vanno a rafforzare il  settore pubblico mentre il privato non ha la sicurezza sufficiente per  decollare, aprire, assumere. Attende tempi migliori al pari degli  investitori esteri.
L’unico dato veramente in controtendenza sono  le comunicazioni. Dal 2003 è aumentato sensibilmente anche il numero di  abbonamenti di telefonia fissa (si contano ora 1,2 milioni di contratti)  e mobile (19,5 milioni). Ci sono anche 1,6 milioni di abbonamenti per  Internet, contro i 4.600 precedenti all’invasione americana. Ciò ha  peraltro creato un problema ad entrambi i sistemi informativi di regime  in quanto le informazioni “scomode” bypassavano le rispettive censure  sempre via web.
Attenendoci alle statistiche che rilevano solo il  dato quantitativo l’Iraq è, oggi, un paese leggermente più sicuro del  2003 ma con due incognite: la debolezza del governo in carica e  l’insicurezza.
Il premier iracheno, salutando i soldati Usa al  termine della loro missione, ha detto che da oggi “l'Iraq è sovrano e  indipendente. Le nostre forze di sicurezza ora possono affrontare tutte  le minacce, sia quelle interne che quelle provenienti dall'esterno”. Ha  parlato anch’egli a denti stretti e senza guardare in faccia le  telecamere. Sembrava pensare l’esatto contrario.
L’aver affermato  da parte della Casa Bianca: “abbiamo aperto una strada alla democrazia” è  aver osato un po’ troppo in quanto, questi tristi ed interminabili  anni, c’hanno insegnato, lo spero, che non esistono né “guerre lampo” e  né “esportatori di democrazia” ma solo interminabili tentativi di  dialogo, nonviolente relazioni diplomatiche ed un’incessante  cooperazione internazionale. Cose che dovranno sostituire, quanto prima,  l’ultima brigata da combattimento.
A tal proposito l’alluvionato  Pakistan potrebbe essere un “nuovo campo di battaglia” ove l’occidente  potrebbe sperimentare nuove relazioni internazionali. Dovrebbe aiutare  il paese a rialzarsi prima e più dei talebani. Magari assieme ad essi.
Fabio Pipinato 
(direttore di Unimondo)
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