lunedì 30 agosto 2010

Gli Indiani e il Sacro

tratto da: www.opifice.it

di Eduardo Zarelli


La società contemporanea si basa sulla convinzione che l’uomo possa dominare la natura grazie alle sue facoltà razionali. Esiste tuttavia una profonda differenza tra razionalità e intelligenza. La razionalità è solo una componente dell’intelligenza umana, riflesso, quest’ultima, di qualcosa di più vasto e di più alto, che permea la vita in ogni sua manifestazione.
È attraverso l’intelligenza che l’essere umano avverte e comprende la dimensione del sacro. Parte essenziale dell’intelligenza umana è la sensibilità, ossia quella facoltà che ci permette di ritrovare, come ogni altra specie, la sintonia con i ritmi profondi della natura e di intuire ciò che non può essere razionalmente spiegato.
L’intelligenza ha a che fare con la totalità e, quindi, con l’armonica presenza, in ognuno di noi, del principio maschile e del principio femminile: nell’intelligenza coesistono tanto il momento passivo dell’ascolto e del silenzio, quanto il momento attivo della scelta e dell’intervento. Questo significa anche che l’intelligenza partecipa della dimensione collettiva, in cui ciascuno si riconosce come parte di qualcosa di più vasto e partecipa alla trama della vita nella sua interezza, fatta di modelli, archetipi e simboli, da un lato, di cicli, suoni e ritmi, dall’altro.
La razionalità è, invece, la capacità di elaborazione logico-matematica e di previsione a partire dai dati acquisiti con l'esperienza. Essa è espressione solo parziale dell’individuo ed è determinata da una serie di condizionamenti, fra cui spicca quello sociale. Aver attribuito alla razionalità un valore talmente elevato da farne l’unica guida dell’attività umana, ha comportato una serie di gravi conseguenze. Innanzitutto, si è verificata la rottura dell’intima relazione esistente fra umanità e natura; si è assistito alla perdita, da parte dell’individuo, del senso immediato di appartenenza alla più ampia comunità naturale; infine, si è imposta una misura del valore dell’individuo basata sul concetto di utilità, nei confronti di una società umana “razionalizzata”.

Può così instaurarsi un rapporto di dominanza, che continuamente si produce, dell’artificiale sul naturale, del materiale sullo spirituale, dei popoli “progrediti” sui popoli la cui cultura continua a basarsi sull’integrazione dell’uomo con la natura.
Questo significa che, da qualsiasi punto di vista si vogliano affrontare i problemi e le contraddizioni della società contemporanea, bisogna riaffermare come centrale la questione ecologica, non già nei suoi effetti ultimi, ma nel suo significato sostanziale: il distacco fra la cultura umana e la natura.
In questo senso, la rivalutazione della cultura degli indiani d’America contribuisce a riscoprire tutte le popolazioni indigene della Terra e, di conseguenza, a riscoprire l’armonia tra il naturale e il culturale.
Non abbiamo bisogno di musei di antropologia del “buon selvaggio” bensì di confronti stimolanti che rivitalizzino la capacità sopita di riconnettersi con il naturale che è dentro e fuori di noi. Vedere nel pellerossa storico l’ennesima occasione di fuga esotica dalla frenesia contemporanea non rende giustizia a ciò che egli è stato e che dovrebbe continuare a essere: un riferimento per la riscoperta universale delle radici profonde delle culture indigene e locali.
La cultura dominante sostiene che le leggi di natura sono pure astrazioni o, nel migliore dei casi, che esse non possono essere definite empiricamente. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi possibile l’impatto dovuto ai nostri consumi e ai nostri bisogni.
Se si riconosce in tutti gli esseri viventi la stessa intelligenza di cui l’umanità è parte e si ha nei loro confronti un comportamento coerente con tale riconoscimento, recuperando nel proprio sé profondo la capacità di avvertire e comprendere le emozioni, le sensazioni, gli odori, i linguaggi, il susseguirsi delle stagioni, i cicli, le interdipendenze; se si impara a goderne, a celebrare questa nostra appartenenza al luogo dove abitiamo e alla biosfera in cui viviamo, allora si può tornare ad avvertire anche quel “senso della terra” che accompagnava i sogni archetipici degli indiani e che, oggi, si è trasformato nella frenesia carica di ansia dell’uomo occidentale.

[prefazione al volume Simboli sacri degli indiani d'America di Christopher Dubois, e-book, Area51 Publishing, area51editore.com]

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