sabato 21 agosto 2010

«Vogliamo essere sicuri di piantare un paletto nel cuore del mostro»

fonte: www.ilpost.it

Il punto della situazione sulla perdita di petrolio nel Golfo del Messico
I lavori per la chiusura della falla sono slittati di qualche settimana, il petrolio è ancora disperso in mare

Sono passati centoventitrè giorni dall’esplosione che ha ucciso undici persone e affondato la Deepwater Horizon, aprendo una falla nel pozzo Macondo al largo della Louisiana. Il disastro è diventato ben presto il più grave — almeno in termini di litri di petrolio dispersi — della storia degli Stati Uniti, mettendo in grave difficoltà l’economia del Golfo del Messico e in pericolo l’ecosistema dell’area. La BP, l’azienda petrolifera principale responsabile del disastro, ha combattuto a lungo a fianco del governo degli Stati Uniti per fermare la perdita prima e per chiudere la falla poi. Dopo oltre quattro mesi, finalmente, sembra che la fine delle operazioni sia vicina, sebbene rimangano i problemi creati dal petrolio disperso nell’oceano.

La falla
Al momento è chiusa, ma solo con una soluzione temporanea. La scorsa settimana la prima parte del piano che porterà alla chiusura definitiva della falla è andata a buon fine. L’operazione, chiamata “Static Kill”, ha consistito nell’iniezione di fango e cemento nella falla, che hanno bloccato il petrolio. La seconda parte del piano, chiamata “Bottom Kill”, consiste nel cementare la falla definitivamente e avrebbe dovuto iniziare in questi giorni, ma l’ex ammiraglio della Guardia Costiera che sta dirigendo i lavori al pozzo, Thad Allen, ha dichiarato che la partenza dei lavori è slittata «in qualche momento della settimana dopo il Giorno del Lavoro», che quest’anno cade il 6 settembre.

Prima di procedere con la Bottom Kill, la Guardia Costiera e gli ingegneri della BP hanno deciso in accordo di sostituire i due sistemi di contenimento presenti attualmente sul pozzo, uno danneggiato durante l’esplosione, l’altro installato il mese scorso per l’emergenza. Quest’ultimo “tappo” avrebbe qualche difetto, e l’intenzione degli ingegneri è quindi di sostituirlo con un altro più efficace, in grado di abbassare meglio la pressione nel pozzo, uno degli elementi chiave per la riuscita o meno delle operazioni.

Una delle preoccupazioni, al momento, è la presenza di petrolio, circa un migliaio di barili, intrappolato all’esterno del pozzo, tra la chiusura in cima e il cemento in fondo. Se altro fango dovesse venire pompato, come previsto, ci sarebbe il rischio di un aumento eccessivo della pressione, che potrebbe danneggiare il sistema di contenimento, spingendo petrolio e gas contro il tappo danneggiato e quindi potenzialmente nell’oceano, tornando alla situazione di partenza. Ma è proprio per evitare un incidente del genere che la Guardia Costiera ha deciso di aspettare e installare una nuova cappa: «Vogliamo essere sicuri di piantare un paletto nel cuore del mostro», ha detto Allen.

Il petrolio disperso
Sembrava che l’emergenza fosse finita. Non si riusciva più a scorgere il petrolio a vista d’occhio, il presidente Obama si era fatto un tuffo con la famiglia nell’oceano Atlantico, in Louisiana, per dimostrare al Paese come tutto fosse tornato alla normalità, e un rapporto della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) aveva stimato che ben il 74 per cento di tutto il petrolio fuoriuscito era stato catturato dalle navi in superficie, bruciato, disperso chimicamente, evaporato o dissolto.

Ma le ultime notizie tornano a essere negative. Uno studio pubblicato su Science, definito dal New York Times «il più ambizioso da quando è iniziata la perdita», ha infatti dimostrato l’esistenza di una lunga e stretta venatura di petrolio subacquea che non starebbe svanendo in fretta quanto ipotizzato recentemente, e rischierebbe quindi di danneggiare fauna e flora per mesi o anni. Lo scienziato che ha condotto la ricerca, Richard Camilli, ha comunque tenuto a specificare che i campioni su cui sono stati fatti i rilevamenti sono di giugno, e che qualcosa nel frattempo potrebbe essere cambiato.

La convinzione di diversi scienziati nelle scorse settimane era che i batteri marini avrebbero attaccato velocemente il petrolio, “spezzandolo” e rendendolo quindi parte dell’ecosistema. Lo studio di Camilli sostiene invece che questo, almeno in quella macchia di petrolio lunga 30 chilometri, non stia accadendo a causa delle basse temperature dell’acqua, che rallentano il lavoro dei microbi. La NOAA inizialmente ha smentito le ricerche difendendo i propri rilevamenti, per poi confermarne i risultati. Ora gli scienziati stanno continuando ad analizzare il petrolio per capire quanto sia pericoloso per l’ecosistema.

La BP
Non si fermano le polemiche sulla British Petroleum, la società che dirigeva i lavori sulla piattaforma affondata Deepwater Horizon. Mentre in Indiana la BP chiude uno stabilimento per una perdita di gas, diversi pescatori e proprietari di aziende della zona colpita dal disastro si stanno lamentando perché la società non starebbe pagando i risarcimenti che aveva promesso. Nei giorni scorsi, inoltre, la società è stata accusata dalla Transoceanic — il partner della BP che possedeva la piattaforma — di star nascondendo dati necessari per le indagini sulle cause e le colpe dell’esplosione del 20 aprile. Le accuse sono contenute in una lettera che un avvocato della Transoceanic ha inviato ai membri di spicco del Congresso degli Stati Uniti.

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