mercoledì 25 agosto 2010

In simbiosi con la terra

fonte: www.aamterranuova.it


Gli ecosistemi selvatici si autosostengono con una struttura sociale basata sull’interazione cooperativa e sul riciclo delle sostanze nutritive. La simbiosi è una delle forze maggiori che guidano tutti gli organismi viventi del pianeta.


Una delle gioie del giardiniere è quella di rimettersi in piedi dopo un giorno passato a preparare il terreno e contemplare, con un sospiro di soddisfazione e massaggiandosi la schiena indolenzita, la terra pronta ad accogliere le piantine. Le erbacce sono andate tutte sul mucchio del compost e il letto di semina è pronto a nutrire fiori e ortaggi. Con uguale soddisfazione, il contadino si appoggia allo steccato fiducioso della buona resa del raccolto. Un buon raccolto può essere assicurato a entrambi dall’aggiunta di fertilizzanti e di qualche metodo ben gestito di controllo dei parassiti. Perché aggiungere altro? Perché manca qualcosa: i microbi che fanno da mediatori sia nei processi nutritivi che nella biodiversità e riducono l’impatto di parassiti e malattie a livelli sostenibili dall’ecosistema.
La violenza dell’aratro
Se fin dai primordi avessimo capito come funziona il suolo ed avessimo sviluppato un’agricoltura in comunione con gli organismi del terreno, non avremmo mai fatto la scelta di usare le pratiche dell’agricoltura intensiva che tanti danni hanno fatto ai terreni e al paesaggio. L’aratro semplifica la vita, ma non tiene conto di come crescono le piante e di come funziona un terreno vivo quando piante e terreno non vengono disturbati. Il rivoltare le zolle ha fatto nascere la necessità di continui interventi e di continua assistenza chimica. Prima dell’uomo, chi arava la terra? Chi aggiungeva fertilizzanti e pesticidi?

Gli ecosistemi selvatici si autosostengono con una struttura sociale basata sull’interazione cooperativa e sul riciclo delle sostanze nutritive. La simbiosi è una delle forze maggiori che guidano tutti gli organismi viventi del pianeta. Animali, piante, batteri, funghi e alto sono tutti coinvolti in una grandissima rete di cooperazione a livello mondiale. La simbiosi non è un fatto occasionale; è dappertutto. Di solito viene definita come il combinarsi di due organismi al fine di ottenerne un mutuo beneficio, ma questa è una semplificazione eccessiva. Per prima cosa dimentichiamoci del mutuo beneficio: guadagno e perdita, nella simbiosi, possono variare nella dimensione di spazio e tempo.
I benefici, per i componenti la simbiosi, possono essere più o meno uguali, ma spesso si tratta di un affare solo per uno di essi, almeno per un po’, dopodiché il beneficio può passare all’altro componente. Quello che prima era un consumatore può diventare un semplice fornitore. Dimentichiamoci anche che siano implicati due organismi: la simbiosi può avvenire tra un numero qualunque di organismi maggiore di uno e su qualunque scala, da quella che possiamo considerare la scala individuale ad organizzazioni su scala continentale. La simbiosi è infinitamente variabile.
Un mondo sotto i nostri piedi
Il suolo, a cui sono attaccati alberi, arbusti ed erbe, contiene almeno il 50% di tutta la biomassa di qualunque ecosistema e un numero di specie assai maggiore di quelle presenti sulla sua superficie. Il suolo indisturbato è la più diversificata rete di organismi interdipendenti sulla Terra, ma esso è solido, scuro, impenetrabile. Dal momento che non possiamo guardarci dentro per vedere cosa succede e capirlo, sminuiamo la sua importanza e ne distruggiamo la vita stessa eliminando gli alberi e tutta quella vegetazione che ci può dare fastidio così da poter arare i campi e spandere il «buon seme» sulla terra. Gli organismi del suolo, nelle loro interazioni estremamente complesse, sostengono la flora di superficie e le catene alimentari sulle quali noi contiamo per la nostra sopravvivenza, mentre allo stesso tempo la flora di superficie sostiene le comunità del suolo.
La micorizza è l’associazione simbiotica di un fungo con la radice di una pianta. Si può sostenere che questo sia il processo vitale fondamentale per la vita di terra. La sua funzione più comune è quella di facilitare la disponibilità di fosfato per le piante. Questa sostanza nutritiva essenziale si trova generalmente in basse concentrazioni nei terreni allo stato naturale e per lo più si fissa saldamente alle particelle di terreno, in forma non disponibile per le piante. La micorizza fornisce un rimedio a questo: per esempio le radici della campanula (Hyacinthoides non-scripta) operano in un ambiente in cui il fosfato è disponibile in soluzione nel terreno, con una concentrazione di meno di 0,1 parti per milione. La campanula non può sopravvivere senza la micorizza perché le sue radici spesse e corte non sono in grado di esplorare il terreno alla ricerca di sostanze nutritive poco accessibili.
L’evoluzione e la simbiosi hanno risolto il problema in questo modo: le radici della campanula sono colonizzate da almeno undici tipi diversi di funghi da micorizza, la maggior parte dei quali non sono coltivabili né identificabili e sono di recente scoperta o ancora sconosciuti alla scienza. Essi si estendono ben oltre il sistema radicale e alcuni di loro assorbono il fosfato, altrimenti non disponibile per la pianta cui si accompagnano. A loro volta i funghi ricevono dalla pianta i carboidrati, una sostanza alimentare basilare che essi non riescono a produrre.
La storia del suolo
Circa 500 milioni di anni fa, le piante ancestrali non avevano problemi a procurarsi il fosfato nel loro habitat acquatico primordiale. Non fu altrettanto facile invece, quando, ancora senza radici, sperimentarono la vita di terra. Allora collaborarono coi funghi da micorizza e questo consentì a entrambi di vivere sulla terra asciutta e di diversificarsi. Fin dall’inizio, la cooperazione con i funghi del suolo fu la norma per le piante di terra e lo è ancora oggi per circa il 90-95% di tutte le piante in tutti gli ecosistemi di ogni continente. Fin dall’inizio, l’intervento umano ha messo in moto una serie di disastri per le comunità simbiotiche che si autosostengono in modo naturale. È vero che i conigli, i vermi e i terremoti disturbano anch’essi il suolo, ma soltanto a macchie isolate che tutte le specie riescono rapidamente a ricolonizzare. Questa sorta di disturbo si inserisce nei processi ecologici del suolo perché rilascia sacche isolate di sostanze nutritive le quali a loro volta facilitano l’eterogeneità del terreno e la biodiversità degli ecosistemi.
Le lavorazioni profonde invece colpiscono vaste aree, sterminando ripetutamente gli organismi del suolo, esponendoli a condizioni avverse o, come nel caso dei funghi che formano vasti insiemi di reti, frammentandoli. Se si distruggono i funghi da micorizza, qualche pianta riesce a cavarsela, ma quelle che dipendono dalla micorizza muoiono. I funghi a loro volta non sono così adattabili: se vengono separati dalla propria pianta, la loro unica fonte di carboidrati, non riescono a sopravvivere. Perciò se si rimuovono i funghi la popolazione vegetale ne soffre e se si rimuovono le piante si uccidono i funghi. Sia che la si guardi dal punto di vista delle piante che da quello dei funghi, è la simbiosi che li fa vivere ed è la simbiosi che viene disturbata dall’uomo che ne dovrà condividere le conseguenze. Il rapporto di micorizzazione può essere altamente specifico e anche molto specializzato. Rimuovendo alcuni dei componenti di una comunità, la struttura della comunità stessa viene ben presto compromessa. Rimuovendone molti crollerà l’intera struttura. Il collasso di un ecosistema avviene col progredire della deforestazione e dell’agricoltura intensiva, e non solo perché vengono sterminate le piante autoctone, ma anche perché vengono fatte saltare complesse reti di rapporti simbiotici.
Un terreno sempre affamato
I terreni agricoli, particolarmente nei paesi ad agricoltura intensiva, sono probabilmente peggio della nuda roccia per l’ecosistema a causa della loro contaminazione che non riguarda solo i residui di pesticidi. A basse concentrazioni il fosfato del suolo nutre comunità biologiche che riescono a riciclarlo efficientemente. Nell’agricoltura intensiva, dove le popolazioni di funghi da micorizza sono ridotte, scopriamo di dover continuare ad aggiungere fosfato al terreno perché le piante possano continuare a crescere. Questo perché, quando viene aggiunto in grandi quantità come fertilizzante artificiale, il fosfato che non viene assorbito o trasformato diviene un inquinante.
Le radici non aiutate dalla micorizza riescono ad assimilare solo il fosfato che si trova in forma solubile, il resto si lega alle particelle del suolo, fissandosi in modo tale che solo i funghi specializzati lo possono assimilare, oppure resta fuori dalla portata del sistema radicale. I terreni ricchi di fosfati favoriscono a loro volta la crescita di piante non micorizzate e quindi l’ecosistema viene continuamente modificato e di solito non in meglio. Quando aggiungiamo fosfato al terreno, anche i pochi funghi, resistenti e non specializzati, che sono sopravvissuti all’attacco meccanico, vengono fisiologicamente rifiutati dalle radici della pianta ospite, eliminando così il poco che resta del servizio di acquisizione del fosfato che, in una comunità ecologica non alterata, la pianta riceverebbe «gratuitamente». A quel punto la pianta deve essere in grado di assorbire il fosfato di cui necessita. La maggioranza non ce la fa, ma qualcuna sì: le piante pioniere, le infestanti e le colture industriali.
Le specie erbacee sono probabilmente i vegetali che hanno più successo al mondo. Esse hanno affinato il loro sistema radicale fibroso e ricco di ramificazioni, in modo tale che una singola pianta può avere chilometri di sottili radici che riescono ad esplorare molto efficientemente il terreno alla ricerca di fosfato. Le erbe riescono a raccogliere da sé il fosfato di cui abbisognano. È questo che le rende così valide per i raccolti. Quando l’azione umana stermina i microbi che sostengono la pianta, la semplice aggiunta di acqua e fertilizzante nel terreno ormai rovinato permette alle monocolture come grano, orzo, avena, mais, sorgo o riso di prosperare. Per la stessa ragione altre piante dalle radici fibrose, come patata, girasole, erba medica e soia rendono bene in monocoltura poiché anch’esse hanno la capacità di assorbire il fosfato senza aiuti.
Molte infestanti e piante pioniere devono rinunciare alla micorizza in quanto il loro ciclo vitale è necessariamente imprevedibile e non possono affidarsi all’arrivo di funghi simbiotici che si sviluppino nello stesso tempo dei loro semi. Le infestanti di maggior successo si trovano nelle famiglie, prive di micorizza, dei cavoli, delle barbabietole e dei cenopodi tra le quali ci sono, guarda caso, altre tra le più gettonate colture industriali, come la rapa, la colza, il cavolo nelle sue numerose varianti, la barbabietola da zucchero, la quinoa e le piante da sfalcio.
Collaborare con la natura
Possiamo immaginarci le conseguenze di coltivazioni ripetute di piante prive di micorizza sugli organismi del suolo. In passato, la rotazione e la messa a riposo dei campi aiutavano il suolo a riprendersi dopo le colture più esigenti, ma oggigiorno gli agricoltori seminano ripetutamente, senza lasciar riposare il suolo. Ciò di fatto priva di carboidrati i funghi da micorizza per un anno e più e questo per loro è fatale. Se vogliamo avere dei suoli «vivi» dobbiamo cercare di mantenere in essi diverse comunità di piante-microbi, restituendo diversità ai terreni agricoli. Volendo ricostruire degli ecosistemi naturali, perché non aggiungere la micorizza al momento della messa a dimora delle piante? Magari fosse così semplice. Gli inoculanti di micorizza sono in vendita così come i semi, ma contengono solo funghi non specializzati, di facile coltura, le «erbacce» del mondo dei funghi, che possono dare qualche beneficio in regimi di coltivazione semplici, ma che non rappresentano la maggioranza dei funghi da micorizza esistenti in natura, molti dei quali sono ancora sconosciuti mentre molti di quelli conosciuti non sono coltivabili.
La natura ci ha fornito di processi di produzione di cibo collaudati da milioni di anni in collaborazione con l’evoluzione. Malgrado ciò l’uomo sceglie di ignorare, di interferire e di danneggiare questi processi prendendo arrogantemente come base della sua agricoltura il rimedio, costoso in termini di tempo, soldi, trasporti, materie prime, danni ambientali e buon senso, piuttosto che la cooperazione. Sembra che prima di cominciare a coltivare il nostro cibo dobbiamo per forza rendere la terra inadatta proprio a questo scopo. Invece se adottassimo due sole misure potremmo eliminare la necessità dei velenosi mali della nostra agricoltura. La prima misura è quella di abbandonare la monocoltura e adottare il sistema di colture miste, ancora in uso in molti paesi dell’Est, dove viene applicato un modello molto vicino a quello presente in natura. La seconda è quella di ridurre le lavorazioni al minimo, compatibilmente con la protezione del suolo.
Dovremmo entrare noi stessi nelle simbiosi esistenti collaborando e assistendo gli organismi che sostengono le piante che ci danno il cibo. Quando coltiviamo la terra, possiamo riconoscere la storia naturale e la funzione di questi eleganti meccanismi come la micorizza, e adattare i nostri metodi ad essi piuttosto che sterminarli e poi doverli rimpiazzare con rudimentali alternative. In questo modo la simbiosi aumenterebbe, con grandi benefici per l’ambiente e per tutte le specie viventi. Compresa la nostra.
Articolo tratto dal numero arretrato di Terra Nuova Giugno 2007

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